L’ultima campagna archeologica dell’Università di Pisa a Luni nel 2019 ha portato alla luce un tempio della seconda metà del I secolo d.C. nel quartiere di Porta Marina. L’edificio si affaccia proprio sul cardo maximus, la strada principale della città con andamento nord-sud, e sorge su quella che sinora si pensava fosse “soltanto” una domus.
“Lo spazio privato di una domus diventò dunque un’area sacra per gli abitanti del quartiere e, probabilmente, anche per coloro che lavoravano nel vicino porto, dal quale l’edificio doveva essere visibile”, spiega la professoressa Simonetta Menchelli dell’Ateneo pisano, che coordina gli scavi.
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L’alto podio su cui venne costruito il tempio è andato completamente perduto ma, considerando le fondazioni dei vani di servizio al di sotto della cella e del pronao, gli archeologi sono riusciti a ricostruire la pianta dell’edificio a cella unica quadrangolare che appare simile a quella di altri templi dell'epoca nella stessa Luni, come ad esempio quello cosiddetto di Diana, o ad Ostia.
“Nella prossima campagna nel 2020, l’obiettivo sarà di portare in luce i resti della scalinata di accesso al tempio, al quale si arrivava appunto dal cardo maximus”, aggiunge la professoressa Menchelli.
Ma non finiscono qui le novità emerse dagli scavi dell’Università di Pisa che hanno riguardato la parte di Luni più vicina al porto, dove negli anni scorsi gli archeologi hanno individuato due domus del II secolo a.C., che nei secoli hanno subito numerose ristrutturazioni, rifacimenti e cambi d’uso.
Nella domus meridionale gli scavi hanno infatti messo in luce parte di un vasto peristilio pavimentato con un conglomerato cementizio marmoreo, nelle cui vicinanze doveva esserci una fontana, e/o delle volte o delle pareti decorate con conchiglie, come si deduce dai numerosi molluschi marini bivalvi ritrovati incastonati nella malta.
“Erano decorazioni comuni nelle domus di prestigio a partire dal I secolo a.C. - dice Simonetta Menchelli - per arricchire le case con elementi naturali connessi con l’ambiente acquatico, ma anche con funzione simbolica, essendo le conchiglie considerate simbolo di prosperità e fecondità”.
Per quanto riguarda la seconda domus più a settentrione, la struttura fu occupata da un impianto per il lavaggio di pellami e tessuti e su questo, alla fine VI secolo d.C., fu costruita una casa, di cui sono stati scavati due ambienti, uno con un focolare al centro, ed un cortile esterno. L’area continuò quindi ad essere occupata sino alla fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo d.C. e i suoi abitanti dovevano avere un elevato tenore di vita, come rivelano le anfore ritrovate che contengono derrate alimentari provenienti da tutto il Mediterraneo (Campania, Tunisia/Algeria, Grecia, Turchia e area siro-palestinese).
Le campagne di scavo a Luni dell’Ateneo pisano sono svolte in regime di concessione da parte della Soprintendenza Archeologica Liguria e in sinergia con il Museo Archeologico Nazionale di Luni ed il Comune di Luni. Partecipano gli studenti dell’Università di Pisa, dell’Istituto Parentucelli Arzelà di Sarzana e del Liceo Costa di La Spezia, coordinati sul campo dal dottore Paolo Sangriso, con i dottori Alberto Cafaro, Stefano Genovesi, Rocco Marcheschi, Silvia Marini, e con la collaborazione del dottore Domingo Belcari.
Alle attività sul campo prende parte il professore Stephen Carmody (Troy University, Alabama, USA) per la classificazione dei materiali paleobotanici che ha recuperato mediante la flottazione degli strati archeologici. Tale studio offrirà dati significativi sull’ambiente naturale lunense, e sulla relativa interazione antropica.
Al progetto partecipano inoltre il professore Adriano Ribolini (DST, UniPi), per le indagini Ground Penetrating Radar volte ad individuare gli edifici sepolti nel settore meridionale della città, per definirne la pianta ed indirizzare i futuri scavi, il professore Vincenzo Palleschi (CNR, Pisa) per la modellazione delle strutture in 3D, ed il dottor Younes Naime (DCFS, UniPi) per lo studio dei reperti archeozoologici.
I risultati della campagna archeologica sono stati presentati in un Open day lo scorso ottobre, che ha visto la partecipazione di oltre 350 visitatori.
Fig. 1. L’area di scavo vista da est
Fig. 2. Alcuni dei molluschi inseriti nelle murature
Fig. 3. In primo piano i resti del tempio visti da sud
Fig. 4. L’open day in corso a Luni (12 ottobre 2019)
Una ricerca internazionale coordinata dall’Università di Pisa ha documentato l’effetto delle attività umane sull’ambiente alpino già dall’Età del Ferro, circa 2800 anni fa. Eleonora Regattieri e Giovanni Zanchetta, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano, insieme al loro team hanno analizzato una colata stalagmitica proveniente della Grotta di Rio Martino nelle Alpi occidentali in Piemonte. Questo eccezionale “archivio naturale” ha consentito infatti di studiare l’impatto antropico sull’ambiente alpino negli ultimi 9000 anni. I risultati della ricerca, appena pubblicati sulla rivista Scientific Reports, hanno così collegato l’instaurarsi dell’attività della transumanza stagionale, uno dei tratti della futura economia della zona, con una maggiore vulnerabilità del suolo rispetto alle precipitazioni e alle variazioni climatiche.
Eleonora Regattieri Giovanni Zanchetta nella Grotta di Rio Martino
“Nella regione alpina - spiega Eleonora Regattieri - l’inizio dell’Età del Ferro coincide con lo sviluppo delle tecniche casearie. La possibilità di conservare e trasportare il latte prodotto in estate coincide con l’inizio dell’utilizzo permanente dei siti di alta quota e lo sviluppo della moderna economia alpina, tutte attività che impattano sull’ambiente e soprattutto sul suolo”.
Come emerge dal confronto fra le analisi geologiche e i dati archeologici, nel periodo compreso tra 9800 e i 2800 anni fa, quando la pressione antropica nei siti di alta quota era scarsa, l’erosione del suolo appare legata soprattutto a contrazioni naturali della vegetazione, legate a momenti di riduzione delle precipitazioni. A partire dall’ Età del Ferro, 2800 anni fa, i dati geochimici evidenziano invece un drastico cambiamento nella risposta del suolo, che determina una maggiore erosione in risposta al brusco aumento delle precipitazioni.
“Il record di Rio Martino – spiega Giovanni Zanchetta - suggerisce un profondo e precoce impatto delle attività umane sui naturali processi della cosiddetta ‘Zona Critica’, che nelle Alpi come altrove, è quella “pelle” che riveste il nostro pianeta, dalle acque sotterranee sino all’apice della vegetazione, e che tramite una rete di complesse interazioni tra le diverse componenti biotiche ed abiotiche, determina la disponibilità di risorse che rendono possibile la vita sulla Terra”.
Lo studio delle proprietà geochimiche e magnetiche della concrezione della grotta di Rio Martino ha infatti consentito agli scienziati di collegare le informazioni locali sul suolo e sulla vegetazione ai parametri climatici che agiscono su scala regionale, compreso il regime idrologico.
Giovanni Zanchetta nella Grotta di Rio Martino
“Come sappiamo bene l’attività umana trasforma gli ambienti e l'ecologia terrestre da migliaia di anni, un processo che negli ultimo secoli si è fatto sempre più imponente, fino a cambiare la composizione dell’atmosfera e influenzare il clima stesso del nostro pianeta - conclude Giovanni Zanchetta – Quando tutto questo sia cominciato e con quanta intensità sono domande che come ricercatori ci poniamo, anche nell’ottica di prevedere e mitigare i possibili cambiamenti futuri indotti dall’attività umana”.
È una piccola lente adesiva in materiale siliconico e, se fatta aderire alla camera di uno smartphone, può funzionare come un microscopio ingrandendo fino a 100 volte. Progettata nei laboratori del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell'Università di Pisa, questa lente è il frutto di uno studio realizzato dagli scienziati pisani in collaborazione con l’Università della California S. Diego apparso su Advanced Functional Materials che introduce un deciso cambio di paradigma: i ricercatori hanno sfruttato le proprietà di cristalli fotonici in silicio nanostrutturato, che fungono da filtri ottici, per costruire un dispositivo in cui lente e filtro diventano una cosa sola.
“Nella nostra società c’è una crescente richiesta di strumenti analitici semplici, rapidi e affidabili, per esempio per valutare rapidamente la presenza di batteri in cibi o su ferite – afferma Giuseppe Barillaro, docente di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell'Università di Pisa – Non sempre è possibile farlo in laboratorio con un microscopio, che ha costi elevati ed è difficile da trasportare. Il nostro sistema permette di compiere la stessa operazione ovunque, e al costo di un centesimo. Questo grazie a un cambiamento radicale nel modo di pensare e progettare dispositivi ottici”.
Nei microscopi tradizionali infatti le lenti servono principalmente come elemento di raccolta della luce, che poi viene manipolata grazie a filtri ottici. Questo richiede una progettazione e una lavorazione piuttosto complesse, che si traducono in costi elevati dei dispositivi.
“Il materiale siliconico che compone la lente - prosegue Barillaro - viene deposto in forma di goccia sul filtro ottico, che ha una particolare nanostrutturazione che ricorda le “ali di una farfalla”. Il filtro, semi-poroso, si integra con il materiale siliconico deposto sopra, e la sua struttura fa in modo che questo assuma spontaneamente forma e funzione di una lente, evitando lavorazioni complesse e semplificando tutto il dispositivo, dal momento che raccolta, filtraggio della luce e ingrandimento avvengono nel medesimo sistema ottico”.
La lente così ottenuta è autoadesiva, e può trasformare molto semplicemente un comune smartphone in un microscopio a fluorescenza altamente affidabile. Le applicazioni in campo medico sono estremamente rilevanti, sia per la medicina ospedaliera che per quella praticata in paesi, come quelli del sud del mondo, dove il trasporto di apparecchiature è difficile.
“D’ora in poi per le analisi di campioni biologici che necessitano di microscopia cellulare – conclude - sarà sufficiente una lente e un semplice apparecchio di lettura, come può essere uno smartphone, rendendole più facili e meno costose. Il sistema è di particolare interesse specie in quei campi in cui la velocità di analisi, e quindi di azione, diventa cruciale, come il rilevamento della presenza di batteri nelle ferite, un tipo di analisi che con i metodi tradizionali richiede circa 24 ore, con conseguenti ritardi nel trattamento, che si traducono in tempi e costi maggiori. Con il nostro sistema, applicando allo smartphone una lente apposita, è possibile determinare la presenza di batteri direttamente sul posto”.
Thousands of years ago in Mesopotamia letters written on tablets to exchange information of every nature were sent in clay ‘envelopes’. Three large portions of these envelopes, part of a discovery which is exceptional for the number and state of conservation of the artifacts, is the outcome of an archaeological excavation campaign in Iraq carried out by the University of Pisa in collaboration with the University of Siena and the Iraqi University of Al-Qādisiyyah. In particular, the archaeologists found a hundred or so fragments with cuneiform script dating back to the beginning of the 2nd millennium BC, eight of which intact or almost, as well as a rich array of ceramics and more than ninety ‘cretulae’, or rather blocks of clay with seal or string impressions which were used to secure the containers.
The archaeological investigations, which ended in November, were carried out at Tell as-Sadoum in central southern Iraq. The 50 hectare site, east of Najaf, on a branch of the Euphrates river, was identified as being Marad, an ancient city of southern Mesopotamia, whose history can be traced over a long period of time from the protodynastic period (3rd millennium BC) to the Neo-Babylonian Empire (1st millennium BC). In particular, the excavations were centred around a large temple at the top of the main hill and two other areas, one residential and the other a manufacturing district, where most of the cretulae and tablets were found.
“In general, the tablets bear witness to the wealth and the lively economic and administrative life of the ancient city in Mesopotamia and often tell of business transactions as well as administrative and judicial issues,” explains Anacleto D’Agostino, contract professor of Archaeology of the Near East at the University of Pisa, who coordinated the project. “The tablets we found, from the Isin-Larsa and Old Babylonian Periods, which are currently under examination, contain purchase agreements, letters and date formulas and also mention the names of sovereigns as well as references to a few cities.”
“The tablets could also be enclosed in ‘envelopes’, of which we found dozens of fragments,” continues D’Agostino.” The ‘envelopes’ are containers modeled out of thin layers of clay with the subject of the message printed on the surface along with names or images, used to authenticate and guarantee the contents.”
The complexity of the civilization of the era can in fact also be seen by the seals, frequently embossed with semi precious stones. These were often effectively the distinguishing mark and signature of prominent people and officials. The scenes engraved on them reproduce various themes and are often executed with great care and expertise by skilful craftsmen. In the fragmentary impressions brought to light during the excavations and which date back to the 3rd millennium BC, there are, for example, miniature scenes depicting heroes fighting with wild animals and imaginary creatures, enthroned divinities, a lion attacking a gazelle or rampant caprids and an elephant.
“Given the excellent results of this campaign and the importance of the findings,” concludes D’Agostino, “the prospect is to continue the project through 2020 with a new mission in the field.”
The investigations at Tell as-Sadoum are part of a much wider project of excavation, exploration and exchange of competences approved by the State Board of Antiquities and Heritage of Baghdad which include the Universities of Pisa, Siena and Al-Qādisiyyah, codirected by Anacleto D'Agostino (Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa), Valentina Orsi (Department of History and Cultural Heritage, University of Siena) and Abbas al-Hussainy (Department of Archaeology, University of Al-Qādisiyyah). The 2019 excavation campaign also included Emanuele Taccola from LaDiRe of the Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa, in charge of topographic photogrammetry, the archaeologist Giacomo Casucci and representatives from the Iraqi SBAH, Waleed Abd al Munaam Yasif and Ghassan Adnan Abbas, as well as young people and labourers from the city of al-Dīwāniyya and the suburb of al-Saniyyeh. The expedition was made possible thanks to the fundamental contribution given by the Fondazione Oriente Mediterraneo.
Migliaia di anni fa in Mesopotamia, per scambiarsi in formazioni di ogni tipo, le lettere si scrivevano su tavolette che poi si inviavano in “buste” di argilla. Tre grandi porzioni di queste “buste” sono parte di un eccezionale ritrovamento, per quantità e stato di conservazione dei reperti, portato alla luce durate una campagna di scavi in Iraq condotta dall’Università di Pisa in collaborazione con l’ateneo di Siena e quello iracheno di al-Qādisiyyah. In particolare gli archeologi hanno trovato un centinaio di frammenti con testi cuneiformi databili all'inizio del II millennio a.C. (fra cui ben otto tavolette intere o quasi) oltre a un ricco repertorio ceramico e a più di novanta “cretule”, cioè blocchetti di argilla con impronte di sigillo o corda applicate a chiusura di contenitori.
Le indagini archeologiche concluse a novembre hanno riguardato Tell as-Sadoum nell’Iraq centro-meridionale. Il sito di 50 ettari, a est di Najaf, su un ramo del fiume Eufrate è stato identificato con Marad, una antica città della Mesopotamia meridionale, la cui storia copre un lungo arco cronologico che va dal Protodinastico (III millennio a.C.) al Neobabilonese (I millennio a.C). In particolare gli scavi hanno riguardato un grande tempio sulla sommità della collina principale e due quartieri, uno residenziale e l'altro produttivo dove sono state rinvenute gran parte dei testi e delle cretule.
“In generale le tavolette testimoniano la ricchezza e vivacità della vita economica e amministrativa delle antiche città della Mesopotamia e ci parlano spesso di transazioni contabili, questioni amministrative e giuridiche – spiega il dottor Anacleto D'Agostino, docente di Archeologia del Vicino Oriente all’Università di Pisa che ha coordinato il progetto – quelle che abbiamo trovato, di epoca Isin-Larsa/antico-paleobabilonese e che sono in corso di studio, contengono contratti di compravendita e lettere, e menzionano i nomi di sovrani, formule di datazione e forse il riferimento ad alcune città”.
“Le tavolette inoltre potevano essere inglobate in “buste”, noi ne abbiamo ritrovate decine di frammenti – continua D'Agostino – cioè dei contenitori in strati sottili di argilla sulla cui superficie esterna era impresso l'argomento delle missive mentre l’impronta dei sigilli, con nominativi o immagini, serviva a vidimare il contenuto e ne garantiva l'autenticità”.
La complessità della civiltà dell’epoca è testimoniata infatti anche dai sigilli, spesso realizzati in pietre semipreziose, di fatto dei contrassegni univoci con cui personaggi importanti e funzionari si firmavano. Le scene che vi sono intagliate riproducono vari temi e sono spesso eseguite con grande attenzione e perizia da abili artigiani. Nelle impronte frammentarie ritrovate durante gli scavi, che datano probabilmente al III millennio a.C., ci sono ad esempio scene in miniatura che rappresentano eroi in lotta con animali selvatici ed esseri fantastici, divinità in trono, un leone che aggredisce una gazzella o capridi rampanti e un elefante.
“Visti gli ottimi risultati di questa campagna e l'importanza dei ritrovamenti – conclude D'Agostino - la prospettiva è di continuare il progetto con una nuova missione sul campo anche nel 2020”.
Le ricerche a Tell as-Sadoum sono parte di un progetto più ampio di scavo, ricognizione e scambio di competenze approvato dallo State Board of Antiquities and Heritage di Baghdad che vede coinvolte le Università di Pisa, Siena e Al-Qādisiyyah, condiretto da Anacleto D'Agostino (Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Università di Pisa), Valentina Orsi (Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, Università di Siena) e Abbas al-Hussainy (Dipartimento di Archeologia, Università di Al-Qādisiyyah). Alla campagna di scavi 2019 hanno preso parte come responsabile del rilievo topografico e fotogrammetrico il dottor Emanuele Taccola del Laboratorio di Disegno e Restauro del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Università di Pisa, l'archeologo Giacomo Casucci e i rappresentanti dello SBAH iracheno Waleed Abd al Munaam Yasif e Ghassan Adnan Abbas, oltre ai ragazzi e agli operai della città di al-Dīwāniyya e del sobborgo di al-Saniyyeh. La spedizione è stata resa possibile grazie al fondamentale contributo della Fondazione Oriente Mediterraneo.
Siamo abituati a pensare che l’udito riporti fedelmente quello che succede intorno a noi, facendoci associare quello che sentiamo agli stimoli che i nostri sensi ricevono in quel momento. Uno studio appena pubblicato sulla rivista “Current Biology”, risultato di una collaborazione internazionale tra le università di Pisa, Firenze e Sydney, dimostra invece che la nostra percezione dei suoni è condizionata dall’eco dei suoni del passato recente.
«Molte delle nostre percezioni sono di fatto allucinazioni predittive, sono cioè attività nervose sollecitate da stimoli precedenti che condizionano la percezione di quelli successivi, proprio come l’eco di un suono che, riverberando, si combina con i suoni seguenti, modificandoli – spiega Tam Ho, giovane post-doc all’Università di Pisa e prima autrice dell’articolo –. Questi processi non sono di natura cognitiva: la predizione altera l’analisi anche di segnali sensoriali molto semplici e la loro selettività suggerisce che l’interazione avvenga nelle cortecce sensoriali».
Da sinistra Concetta Morrone, Hao Tam Ho, David C.Burr
Il team di ricercatori ha iniziato a fare luce su alcuni meccanismi alla base di questa percezione predittiva, dimostrando che i segnali predittivi sono estremamente selettivi e non costanti nel tempo. I ricercatori hanno dimostrato che la capacità di localizzare la provenienza di un suono (da destra o da sinistra) è condizionata dallo stimolo precedente. «Questo condizionamento si protrae per molti secondi se non intervengono ulteriori stimoli sensoriali – spiega la professoressa Maria Concetta Morrone dell’Università di Pisa, tra gli autori dello studio – La traccia di memoria degli stimoli precedenti si riaccende e riverbera ogni volta che si ripresenta uno stimolo che proviene dalla stessa posizione nello spazio».
Quindi la modulazione predittiva è ritmica e pulsa a un ritmo di 9 “battiti” al secondo. Questa frequenza, detta ritmo alfa, è una delle frequenze predominanti delle oscillazioni neuronali endogene che il cervello genera continuamente ed è affascinante pensare che questo ritmo trasporti informazioni predittive e selettive.
Sebbene i ricercatori in queste ricerche abbiano studiato l’udito, ritenengono che gli stessi principi siano validi per tutti gli altri sensi. “La percezione è un fenomeno attivo - chiarisce David Burr, autore corresponding dell’articolo e titolare del grant dell’European Research Council che ha finanziato la ricerca -: la previsione di quello che dovrebbe essere lo stimolo in arrivo può dominare la percezione e perfino annullare completamente la nuova informazione sensoriale”.
Il team di ricercatori in passato ha dimostrato che l’abilità di predire lo stimolo in arrivo è minore nei soggetti affetti da autismo o con tratti di personalità autistici. “I risultati dello studio potranno avere rilevanza anche per la comprensione di alcune patologie - conclude Burr -. La sfida sarà capire se questa ridotta abilità predittiva sia associata a un’alterazione dei meccanismi di riverberazione della traccia di memoria degli stimoli appena estinti”.
Stappare una bottiglia di vino e tornare indietro nel tempo, è possibile grazie ad un esperimento scientifico unico al mondo condotto all'isola d'Elba. Nesos, il vino marino, è stato presentato mercoledì 13 novembre a Firenze in un convegno organizzato in collaborazione con Regione Toscana, Toscana Promozione Turistica, Vetrina Toscana, Fondazione Sistema Toscana.
L'esperimento enologico è stato realizzato dall'Azienda Agricola Arrighi dell'isola d'Elba in collaborazione con il Professor Attilio Scienza, Ordinario di Viticoltura dell’Università degli Studi di Milano e delle professoresse Angela Zinnai e Francesca Venturi del corso di Viticoltura ed Enologia dell'Università di Pisa.
Le 40 bottiglie di vino presentate in anteprima assoluta a Firenze sono state prodotte secondo una tecnica utilizzata nell’isola di Chio ai tempi dell’antica Grecia e che prevede di immergere i grappoli integri in mare aperto. Dopo circa 2500 anni questo metodo è stato riproposto all’Elba utilizzando l’ansonica, un'uva bianca coltivata sull’isola, con caratteristiche simili a quelle di due antiche uve dell’Egeo, il Rhoditis ed il Sideritis, e caratterizzata da una polpa croccante e una buccia resistente che ne ha permesso la permanenza in mare.
L'affinamento in mare delle uve nelle speciali nasse
Le uve sono state immerse in mare per 5 giorni a circa 10 metri di profondità, all’interno di nasse di vimini. Questo processo ha consentito di eliminare parte della pruina superficiale, cioè il velo ceroso che riveste gli acini, mentre il sale marino per “osmosi” è parzialmente penetrato all’interno. Nella vinificazione delle uve sono state impiegate anfore di terracotta ottenendo, dopo un anno di affinamento in bottiglia, un vino estremamente naturale, molto simile a quello prodotto 2500 anni fa.
“Il contributo alla ricerca dell’Università di Pisa è stato importante – dice la professoressa Angela Zinnai – a partire da quello di una mia studentessa, Naomi Deaddis, che ha dedicato la sua tesi di laurea all’esperimento e che ha reperito le particolari nasse che sono servite per immergere l’uva sino alla definizione del protocollo sperimentale e delle verifiche sia chimiche che sensoriali del vino che ho realizzato con la collega Francesca Venturi”.
Dalle analisi svolte è emerso che il contenuto in fenoli totali del vino marino è il doppio rispetto a quello prodotto tradizionalmente, e questo grazie alla maggiore estrazione legata alla parziale riduzione della resistenza della buccia. Dal punto di vista sensoriale il vino mostra infine abbondanti “riflessi dorati” con sentori di frutta matura a polpa bianca e gialla con un’evidente punta di salinità e una minore acidità titolabile legata all’incremento delle ceneri del vino.
Durante il convegno a Firenze è stato proiettato in anteprima italiana il documentario Vinum Insulae diretto e prodotto da Stefano Muti (Cosmomedia), che racconta l'esperimento enologico di Nesos e che ha vinto primo premio come Miglior Cortometraggio al 26° Festival International Œnovidéo di Marsiglia. Il documentario è attualmente in concorso anche alla IX edizione del Most Festival 2019, Festival internazionale del cinema del vino e della cava, che si sta svolgendo in Spagna a Vilafranca del Penedès, durante la celebrazione della Giornata europea del turismo del vino.
Violate forse alla ricerca di tesori e gioielli o comunque riaperte per cause accidentali, come l’incendio del 1506 che devastò la chiesa che le ospitava. E’ negli insetti il segreto delle sepolture di Ferrante II di Aragona e di altri nobili aragonesi conservate nella Basilica di San Domenico Maggiore di Napoli che un team di paleopatologi ed entomologi dell’Università di Pisa ha studiato per ricostruirne le vicende. La ricerca pubblicata nella rivista internazionale Journal of Medical Entomology ha individuato nei corpi la presenza di alcuni particolari artropodi rivelando così una successiva apertura delle tombe.
“Abbiamo rinvenuto 842 resti di insetti appartenenti agli ordini dei ditteri, coleotteri e lepidotteri – spiega Augusto Loni, entomologo dell’Università di Pisa - Tutti gli esemplari ritrovati appartengono a specie che colonizzano tardivamente i corpi nel corso dei processi di decomposizione. La completa assenza di ditteri calliforidi supporta invece l’ipotesi della conservazione dei corpi in un luogo asciutto e ben riparato assicurato dal fatto che presumibilmente i sarcofagi erano stati sigillati con materiale bituminoso”.
Sarcofaghi della Basilica di San Domenico Maggiore di Napoli
Come confermato dalle analisi, nel Rinascimento le conoscenze delle tecniche di imbalsamazione dei corpi erano avanzate, si trattava di preparazioni sofisticate che si applicavano a persone di elevato rango sociale. Per quanto riguarda questa particolare indagine, i ricercatori hanno esaminato i resti di quattro mummie, due uomini e due donne: re Ferrante II di Aragona re di Napoli (1469–1496), Francesco Ferdinando di Avalos, Marchese del Vasto e Pescara (1530–1571), Giovanna IV di Aragona, regina di Napoli (1479–1518) e Caterina di Moncada, Duchessa di Montalto (-1659).
“Il ritrovamento di frammenti di coleotteri dermestidi e lepidotteri tineidi testimonia un accesso ai corpi avvenuto ad una notevole distanza temporale dalla loro sepoltura - - ha aggiunto Giovanni Benelli entomologo dell’Ateneo pisano – in generale si tratta di uno scenario coerente con l’ipotesi di una nuova apertura, tardiva e prolungata dei sarcofagi, che ha permesso a questi insetti di colonizzare i corpi, compiere il loro ciclo ed abbandonare l’ambiente”.
“Lo studio dei resti entomologici, che inevitabilmente accompagnano i resti umani nei siti archeologici, permette di fare luce sulle vicissitudini che i corpi dei personaggi storici hanno subito nel corso del tempo – conclude Antonio Fornaciari paleopatologo dell’Università di Pisa – e l’incrocio dei dati entomologici con le informazioni storiografiche che riguardano i siti delle loro sepolture può portare a fare luce, confermare o dirimere questioni dibattute.”
Il team interdisciplinare dell’Ateneo pisano che ha condotto lo studio è composto dai paleopatologi Antonio Fornaciari e Valentina Giuffra della Divisione di Paleopatologia del Dipartimento di Ricerca Traslazionale delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, dagli entomologi Augusto Loni, Angelo Canale e Giovanni Benelli del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari ed Agro-Ambientali, coadiuvati dall’entomologo forense Stefano Vanin (Dipartimento di Scienze della Terra dell'Ambiente e della Vita, Università di Genova).
Furono i teddy boys all’italiana i protagonisti della prima vera frattura generazionale nella storia del nostro Paese. Per la prima volta un saggio mette al centro i giovani italiani degli anni Cinquanta descrivendo la loro “ribellione senza causa" ispirata soprattutto ai film e alla musica americana. Il volume appena pubblicato dalla Pisa University Press si intitola “Parole ribelli” e ne è autore il professore Alessandro Volpi del dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pisa. Il libro sarà presentato al Pisa Book Festival (palazzo dei congressi, via Matteucci 1) sabato 9 novembre alle 19.
“Si trattò di una frattura che per molti versi avvenne senza una consapevolezza ben precisa – spiega Alessandro Volpi - "una ribellione senza causa", appunto, lontana dalla politica e dal linguaggio dei grandi partiti e caratterizzata piuttosto dal disimpegno e dall'emulazione di modelli consumistici ed esterofili”.
Gli eroi di questa ribellione furono i grandi attori americani del disagio giovanile - Brando, Dean, accompagnati dal mito di Presley - tutti simboli vissuti dai giovani italiani in un'ottica di immedesimazione senza una reale conoscenza dei fenomeni culturali che li avevano generati.
“Di Brando, Dean e Presley, i giovani italiani amavano proprio la ribellione senza motivo che non aveva bisogno di appartenenze ideologiche e di progetti per il domani – continua Volpi - I teddy boys erano, in tale ottica, il paradigma più esplicito di uno stile di vita sganciato dalle circostanze e dalle visioni; un modello di vita da consumare subito e in fretta che non aveva radici né poteva lasciare un'eredità, secondo quella generazione”.
Una ribellione che secondo la tesi di Volpi, si manifestò soprattutto nelle produzioni di largo consumo, quasi si trattasse di un fenomeno interamente commerciale. Nacquero così la musica per i giovani, la stampa per i giovani, la letteratura per i giovani, i fumetti per i giovani, l’arte per i giovani, che si caratterizzarono proprio per i tratti ribelli fini a se stessi.
“Da questo punto di vista – conclude Volpi - i ribelli degli anni Cinquanta nel loro edonismo, nella loro protesta senza giusta causa, nel loro consumismo esasperato e persino nella loro violenza senza senso, non anticipavano in alcun modo le rivolte degli anni Sessanta, in cui la prospettiva comunitaria era largamente prevalente su qualsiasi istanza individuale e, soprattutto, non avevano nulla a che fare con la ventata ideologica del 1968, di cui certo non costituirono in alcun modo la preparazione”.
Il basilico coltivato nelle biosfere sottomarine dell’Orto di Nemo è più verde, aromatico e ricco di sostanze antiossidanti rispetto a quello che cresce sulla terraferma. La notizia arriva dall’Università di Pisa dove un team di ricercatori ha avuto il compito di valutare la risposta delle piante a condizioni di vita così particolari come quelle in fondo al mare. L’Ateneo pisano è infatti uno dei partner scientifici dell’Orto di Nemo, un progetto partito nel 2012 e promosso da Mestel Safety del gruppo Ocean Reef, una società che si occupa di strumentazioni subacquee, con l’obiettivo di realizzare un sistema alternativo di agricoltura per aree in cui le condizioni economiche o ambientali rendono difficile la crescita di specie vegetali a livello del suolo.
Il basilico coltivato nelle biosfere dell'Orto di Nemo
Il basilico studiato è stato coltivato in biosfere di metacrilato di alcuni metri di diametro immerse nel mare tra i 6 e i 10 metri di profondità di fronte a Noli, al largo delle coste liguri. Queste serre sottomarine sono delle specie di mongolfiere trasparenti dove possono crescere, su mensole posizionate all’interno, dalle 65 alle 95 piantine. Riempite di aria, che essendo più leggera si posiziona nella parte superiore spingendo l’acqua sotto, sono strutture ecologiche che non inquinano e non danneggiano il mare, ed autosostenibili. Si alimentano infatti con energia rinnovabile e per quanto riguarda l’irrigazione utilizzano che l’acqua marina che distilla dalle pareti e gocciola sulle piante.
“Un ecosistema così diverso da quello terrestre per pressione, luce e umidità influenza la crescita delle piante, ma anche la loro composizione in termini di metaboliti primari e secondari – ha detto la professoressa Luisa Pistelli del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa - il nostro lavoro è stato quello di valutare la risposta delle piante a queste nuove condizioni ambientali da tre punti di vista, fisiologico, chimico e morfologico”.
Dalla analisi è quindi emerso che il basilico cresciuto nelle biosfere è più ricco di sostanze antiossidanti (polifenoli) e di pigmenti fotosintetici (clorofille e carotenoidi) per catturare meglio la minor luce che riceve rispetto a quella terrestre. È inoltre più ricco di metil eugenolo, l’aroma volatile caratteristico del basilico genovese, rispetto a quello tradizionale che cresce sulla terraferma. Dal punto di vista dell’aspetto non sono emerse differenze morfologiche al microscopio a scansione.
Le analisi sul basilico sono state condotte nei laboratori dei Dipartimenti di Farmacia e Scienze Agrarie, Alimentari e Agroambientali, Università di Pisa. Oltre a Luisa Pistelli fanno parte del gruppo di lavoro dell’Ateneo pisano Guido Flamini, Roberta Ascrizzi, Laura Pistelli. Nell’intero progetto rientrano anche Claudia Giuliani del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, Università di Milano, Claudio Cervelli e Barbara Ruffoni del CREA-Unità di ricerca per la floricoltura e le specie ornamentali (FSO) e infine Elisabetta Princi, Sergio Gamberini, Luca Gamberini, Gianni Fontanesi della Mestel Safety (Ocean Reef Group) di Genova che hanno ideato, costruito e gestito le serre subacquee.