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Gli agenti patogeni, al pari degli uomini e di ogni altro essere vivente nel nostro pianeta, ‘viaggiano’ arrivando in aree dove prima non erano presenti: individuare tempestivamente questi fenomeni è dunque di cruciale importanza per tutelare la nostra salute. Una recente ricerca italo-canadese ha scoperto la comparsa in Nord America di un nuovo ceppo di un parassita, variante di un ceppo europeo, che sta provocando l'epidemia locale di una malattia sino ad ora riscontrata solo occasionalmente in quel continente. Si tratta dell’Echinococcosi alveolare (AE), una grave patologia causata dal verme piatto Echinococcus multilocularis che è trasmesso agli uomini da alcuni animali selvatici come la volpe e il coyote, o domestici come il cane. Lo studio, coordinato dal professore Alessandro Massolo del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa in collaborazione con le Università di Calgary e dell’Alberta, è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine, la più autorevole e citata rivista al mondo per la medicina.


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“In tutto il Nord America continentale i casi di AE nell’uomo causati da infezioni acquisite localmente erano stati sinora solo due, uno nel 1927 in Canada e uno nel 1977 in USA, mentre gli altri casi rilevati erano pazienti che avevano contratto l’infezione all’estero – spiega il professore Alessandro Massolo dell’Università di Pisa - Il nostro studio, condotto dal 2013 al 2018, ha documentato comparsa di sette nuovi casi nella Provincia dell’Alberta, di cui tre riguardavano pazienti immunosoppressi, una condizione che di solito riduce a pochi mesi o un anno la velocità di manifestazione della patologia, che altrimenti impiega fino a una decina di anni a comparire, rendendo questi pazienti delle ‘sentinelle’ per l’insorgenza di un’epidemia”.

Attualmente in tutto il mondo si registrano ogni anno oltre 18,000 nuovi casi di AE di cui circa 200 solo in Europa. Nell’uomo l’echinococcosi alveolare è una malattia cronica, con esiti fatali in oltre il 90% dei casi se non curata, e del 16% se curata. Il parassita che la provoca esiste in diversi ceppi, e come hanno stabilito gli scienziati attraverso la sua caratterizzazione genetica, quello identificato in Nord America dal gruppo di ricerca del professore Massolo è una variante di quello europeo, notoriamente molto virulento nell’uomo. Questo nuovo ceppo, sempre secondo gli scienziati, sarebbe ormai il più comune nella fauna selvatica in quell’area del Canada (Alberta).

“Almeno cinque dei sette casi di AE ad Alberta sono stati causati da questo ceppo simil-europeo che presenta la mutazione di un gene mitocondriale mai riscontrata prima, il che suggerisce - conclude Massolo - che questo ceppo si sia ormai stabilito in quest’area del Nord America e che probabilmente siamo di fronte ai risultati di un processo recente di invasione parassitaria, con ovvie ricadute di salute pubblica; un’evidenza che dovrà certo indurre cambiamenti di classificazione del rischio per questa grave patologia in Nord America”.

 

Il ‘verde’ delle nostre città? Più è rosso e più è resistente. È questo quanto emerge da uno studio del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista “Frontiers in Plant Science”. Il team dei ricercatori coordinato dalla professoressa Lucia Guidi, direttore del Centro Nutrafood, ha infatti scoperto che le piante a foglie rosse si difendono meglio dagli stress ambientali, come siccità, stress luminoso e salinità, rispetto a quelle a foglie verdi.

 

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Particolare di un nuovo germoglio ancora in attiva crescita durante l'inizio dell'autunno, presente solo in piante a foglia rossa



“Questo maggiore resilienza – spiega Marco Landi ricercatore dell’Università di Pisa – è dovuta alla presenza di antociani, dei pigmenti da cui deriva proprio il rosso delle foglie, che fanno da ‘filtro’ nei confronti dei raggi solari esercitando un’azione fotoprotettiva, soprattutto nei momenti in cui le foglie sono più vulnerabili, cioè quando sono più giovani o senescenti”.

In particolare, l’analisi dei ricercatori si è concentrata su due genotipi di Prunus, a foglie verdi e rosse, dimostrando che queste ultime sopravvivono meglio in condizioni avverse proprio grazie ad una maggiore resistenza delle foglie in tutte le fasi di sviluppo. E così, come conseguenza della presenza di antociani, nel periodo autunnale le piante rosse mantengono le foglie un mese in più circa rispetto quelle verdi.

“Oltre agli aspetti più prettamente scientifici legati alla biosintesi degli antociani – conclude Landi - la ricerca fornisce delle indicazioni utili per selezionare le specie arboree più adatte per l’arredo urbano delle nostre città, un settore nel quale il nostro Dipartimento ha al suo attivo una ventina di anni di attività di ricerca e di didattica, soprattutto nell’ambito della laurea magistrale in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio”.

La ricerca pubblicata su “Frontiers in Plant Science” è stata finanziata grazie ad un Progetti di Ricerca di Ateneo (PRA) e i risultati sono stati presentati nel corso del convegno “Il privilegio di essere rossi in condizioni di stress” che si è svolto all’Università di Pisa nel giugno scorso. Gli autori dello studio, insieme a Lucia Guidi e Marco Landi, sono Giacomo Lorenzini, Rossano Massai, Damiano Remorini, Fernando Malorgio, Paolo Vernieri, Tommaso Giordani, Cristina Nali, Elisa Pellegrini, Giovanni Rallo, ed Ermes Lo Piccolo per l’Università di Pisa e Giovanni Agati e Cristiana Giordano del CNR di Firenze.

In questi giorni la tomba di Kha e Merit del Museo Egizio è stata protagonista di un’indagine innovativa, mai eseguita prima d’ora in un museo: la ricerca del “profumo” di una serie di reperti di circa 3500 anni fa e appartenenti al corredo funerario rinvenuto integro nel 1906 che rappresenta uno dei principali tesori della collezione egittologica torinese.

Nel quadro di un progetto europeo di ricerca, un team di chimici dell’Università di Pisa, in collaborazione con gli archeologi e i curatori del Museo, ha analizzato in modo del tutto non invasivo, senza prelevare alcun campione, il contenuto di più di venti vasi. Ad essere “annusati” grazie a questa tecnologia sono i composti volatili rilasciati nell’aria in concentrazioni estremamente basse (ultratracce) dai residui organici presenti nei contenitori al fine di identificarne la natura.

 

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Reperti "imbustati" in attesa di essere analizzati (Foto: Federico Taverni, Museo Egizio)



Delle provviste alimentari contenute in un piatto, per esempio, furono identificate come “verdura finemente triturata e impastata con un condimento” da Ernesto Schiaparelli, che scoprì la tomba intatta di Kha e Merit a Deir el-Medina. Ma finora nessuna analisi ha potuto confermare né smentire tale ipotesi, e una risposta potrebbe ora arrivare dalla spettrometria.

L’esame è stato eseguito con uno spettrometro di massa SIFT-MS (Selected Ion Flow Tube-Mass Spectrometry) trasportabile, un macchinario che solitamente viene impiegato in ambito medico per quantificare i metaboliti del respiro e che solo recentemente ha dimostrato la sua utilità anche nel campo dei beni culturali per eseguire indagini preservando l’integrità dei reperti.

“Per svolgere l’esame sono stati necessari alcuni giorni; infatti nella prima fase abbiamo chiuso ampolle, vasi e anfore in sacchetti a tenuta stagna in modo da concentrare il più possibile le molecole nell’aria - spiega Francesca Modugno dell’Università di Pisa - i dati saranno registrati nell’arco di due giorni, ma risultati delle analisi saranno disponibili tra alcune settimane, considerata la difficoltà della loro interpretazione. Quello che ci aspettiamo di rilevare sono frazioni volatili di oli, resine o cere naturali”.

 

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L'analisi dei reperti con lo spettrometo di massa (Foto: Federico Taverni, Museo Egizio)



“Siamo orgogliosi di collaborare con i partner di questo progetto e di sperimentare nelle nostre sale l’utilizzo di una tecnica così sofisticata - sottolinea il Direttore del Museo Egizio Christian Greco -. La ricerca è il cuore delle nostre attività e sentiamo fortemente il dovere di sostenerla, pur garantendo l’integrità della straordinaria collezione che abbiamo l’onore di custodire”.

L’indagine ha coinvolto il dottor Jacopo La Nasa e le professoresse Francesca Modugno, Erika Ribechini, Ilaria Degano e Maria Perla Colombini dell’Università di Pisa, il dottor Andrea Carretta della SRA Instruments e Federica Facchetti, Enrico Ferraris e Valentina Turina del Museo Egizio. L’iniziativa rientra nel progetto MOMUS - Spettrometria di Massa SIFT portatile e identificazione di Materiali Organici in ambiente Museale, realizzato con il sostegno della Regione Toscana e di SRA Instruments, cha inoltre ha messo a disposizione lo spettrometro di massa e la sua esperienza.

Un team di ricercatori italiani coordinati dal professore Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa ha gettato nuova luce sul funzionamento della fluoxetina meglio conosciuta con il nome commerciale di Prozac®. Questo farmaco è stato introdotto nel mercato statunitense per il trattamento della depressione nel 1988 ma a più di trenta anni di distanza gli scienziati non sanno ancora esattamente spiegare il suo effetto positivo sul tono dell’umore dei pazienti.

Questa nuova ricerca tutta italiana appena pubblicata su “ACS Chemical Neuroscience” ha rivelato per la prima volta che la fluoxetina rimodella e riorganizza le fibre nervose che rilasciano la serotonina nell'ippocampo andando quindi ad agire sulla struttura fisica del cervello.

 

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Grazie alla presenza della proteina fluorescente verde (GFP) sono messe in evidenza le fibre che rilasciano serotonina nell’ippocampo prima (a sinistra) e dopo (a destra) la somministrazione di fluoxetina per 4 settimane



“La fluoxetina è stato il primo farmaco nella classe di composti noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ad essere approvato dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, in altre parole si tratta di farmaci che bloccano il riassorbimento della serotonina prodotta dai nostri neuroni – spiega Massimo Pasqualetti – quello che ora abbiamo scoperto è che la fluoxetina modifica anche la densità e il numero delle fibre che rilasciano la serotonina nell’ippocampo, quindi la sua azione non è solo a livello funzionale, ma va ad agire anche su quello che possiamo definire l’hardware del cervello”.

I ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa hanno svolto lo studio su un modello murino marcando i neuroni che producono la serotonina del cervello con una proteina fluorescente verde (GFP). Hanno quindi somministrato ad un gruppo la fluoxetina nell’acqua per 28 giorni e confrontato i segnali del marcatore GFP con il gruppo di controllo che non aveva ricevuto il farmaco. Il risultato è che nel gruppo che assumeva la fluoxetina le fibre nervose deputate a rilasciare la serotonina nell’ippocampo, una regione del nostro cervello fortemente coinvolta nella regolazione dell’umore, diventavano meno numerose e più piccole di diametro rispetto a quanto osservato nel gruppo di controllo.


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Da sinistra Serena Nazzi, Massimo Pasqualetti, in alto Giacomo Maddaloni, in basso Marta Pratelli


“Le conseguenze di questo riarrangiamento strutturale del cervello devono ancora essere approfondite – conclude Massimo Pasqualetti – ma certo costituisce un ulteriore tassello per capire come gli antidepressivi esercitano il loro effetto terapeutico”.

Il team di ricerca dell’Università di Pisa guidato dal professore Pasqualetti da si occupa anni di indagare come la serotonina, la cosiddetta molecola della felicità, agisce sul cervello regolandone lo sviluppo ed il funzionamento. Tali ricerche, pubblicate in prestigiose riviste internazionali, costituiscono una base indispensabile per approfondire le nostre conoscenze e per migliorare le cure in disturbi neuropsichiatrici come la depressione. Gli autori dello studio coordinati dal professore Massimo Pasqualetti sono la dottoressa Serena Nazzi, Giacomo Maddaloni (borsista postdoc presso la Harvard Medical School) e Marta Pratelli (borsista postdoc presso l’Università della California, San Diego).

 

PLicausi3_0.jpger rilevare e far fronte alla mancanza di ossigeno (ipossia) l'uomo e le piante utilizzano sensori molecolari sostanzialmente identici tra loro. La scoperta si deve allo studio svolto in collaborazione tra Università di Pisa, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna, Università di Oxford e pubblicato sulla rivista Science.

Per tradizione le piante sono viste come gli organismi produttori dell’ossigeno presente nell’atmosfera, consumato poi da organismi aerobici fra cui gli animali. In realtà tanto le piante quanto gli animali utilizzano questo elemento per immagazzinare energia in forma chimica attraverso la respirazione cellulare. Pertanto, la scarsità di ossigeno (detta ipossia) influisce in maniera significativa sulla fisiologia e sul metabolismo di queste due forme di vita.

Le piante si trovano in condizioni di ipossia quando sono sommerse, ad esempio in caso di intense precipitazioni o di esondazioni. I tessuti animali, d’altro canto, esibiscono uno stato ipossico in condizioni di intensa attività metabolica, associata per esempio a significativo esercizio muscolare oppure durante la proliferazione cellulare incontrollata, come avviene nei tumori. Entrambi, piante e animali, tuttavia sfruttano gradienti di ossigeno come segnale per guidare processi di sviluppo, ad esempio l’angiogenesi negli animali e la produzione di foglie nelle piante.

Il gruppo di ricerca internazionale, costituito dall’Università di Pisa, dall’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna e dall’università di Oxford ha ora scoperto che questo stesso meccanismo, basato su un enzima che utilizza ossigeno molecolare come substrato, è in grado di governare l’abbondanza e quindi l’attività di regolatori cruciali di una gamma di risposte cellulari.

Confrontando componenti del regno animale e vegetale, e trasferendole dall’uno all’altro, i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di un interruttore molecolare, l’enzima ADO, che incorpora ossigeno nell’estremità iniziale di proteine contenenti l’amminoacido cisteina. Questa reazione conduce alla degradazione di tali proteine in condizioni aerobiche, mentre è inibita in ipossia. Pertanto, ADO svolge identica funzione all’enzima di pianta PCO (Plant Cysteine Oxidase), individuato cinque anni fa dalla stessa squadra di ricercatori di Pisa.

“L’ampia conservazione di questo meccanismo – spiega Francesco Licausi (foto a destra), professore associato di fisiologia vegetale all’Università di Pisa - è indicativa della sua rilevanza fisiologica nei due regni. Questa similarità è stupefacente, considerando quanto piante e animali sono distanti da un punto di vista evolutivo, sebbene entrambi rappresentino i vertici evolutivi della vita multicellulare sul nostro pianeta”.

“La scoperta – prosegue Beatrice Giuntoli, ricercatrice dell’Università di Pisa - ha un enorme potenziale applicativo in ambito terapeutico Infatti ADO rappresenta un bersaglio completamente nuovo per il trattamento farmacologico di disturbi tumorali e infiammatori. Fra i target di ADO, abbiamo identificato la proteina RGS4, coinvolta nella segnalazione ormonale, nella neurotrasmissione e nello sviluppo del miocardio, e l’Interleuchina IL-32, una citochina atipica che regola risposte infiammatorie e fattori angiogenici”.

“Le piante e l'uomo hanno necessità di sapere quanto ossigeno respirano e hanno a disposizione – sottolinea Pierdomenico Perata, docente di fisiologia vegetale all’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna – e se il tessuto è carente di ossigeno, sia le piante sia gli animali hanno un'attrezzatura per capire e prendere provvedimenti. In questo nuovo studio – conclude Pierdomenico Perata - abbiamo dimostrato che l'uomo, e probabilmente tutti gli animali, hanno un secondo sistema, aggiuntivo rispetto a Hif1, basato sull'enzima Ado, che è identico a quello delle piante”. Tanto che l'enzima umano, messo al posto di quello delle piante, si è dimostrato capace di sostituirlo.

 

Spesso succede così, i progressi scientifici si ottengono dall’osservazione della natura e dalla comprensione dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. Nello studio condotto da un team di ricercatori provenienti dall’Università di Pisa, l'Ecole Polytechnique Fédérale di Lausanne (EPFL) e l’Università di Twente è stato un fiore a ispirare la definizione di un modello matematico che descrive come si generano forze aerodinamiche stabili capaci di garantire voli a lunga traiettoria. Si tratta del tarassaco, noto anche come “dente di leone”, più in particolare del suo seme, che con il vento si separa dalla pianta di origine e vola disperdendosi a lunghe distanze. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Physical Review Fluids” ed è stato selezionato per una “highlight story” sulla rivista “Physics Magazine”, entrambe edite dall’American Physical Society (APS).

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Il seme del tarassaco può essere trasportato dal vento anche per distanze considerevoli grazie al “pappo”, ovvero un ciuffo di filamenti sottilissimi disposti radialmente a formare un ombrello e che agiscono collettivamente come un paracadute per il seme stesso. La caratteristica più curiosa di questo paracadute naturale è il suo essere principalmente “vuoto”. Infatti, se visto da vicino, il pappo è costituito solo dai filamenti che, essendo in un numero dell’ordine di 100 ed essendo sottilissimi e disposti radialmente, lasciano uno spazio vuoto considerevole tra loro.

simone camarri«Il meccanismo di volo del pappo è stato descritto in un articolo recentemente pubblicato su Nature – spiega il professor Simone Camarri, docente del dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa, tra gli autori del presente studio (nella foto a destra) – Nella nostra ricerca abbiamo proposto un modello matematico che consente di descrivere il comportamento aerodinamico del pappo e, cosa più importante, di studiare la stabilità del suo volo. Il risultato più importante è aver dimostrato che per il diametro e le condizioni di volo tipiche di un pappo, il limite per avere una traiettoria stabile si raggiunge impiegando circa 100 filamenti, e il numero previsto è molto vicino a quanto osservato in natura. Tutto ciò sembra dunque suggerire che, nel suo percorso evolutivo, il pappo abbia raggiunto una condizione ottimale tale da fornire la maggiore resistenza aerodinamica mantenendo contemporaneamente un volo stabile».

Tali principi, spesso cercati in natura, oltre ad avere un interesse fondamentale, costituiscono esempi di come poter realizzare dispositivi artificiali di interesse ingegneristico che siano già vicini a una condizione di ottimo. In questo senso lo studio effettuato sul pappo può dare indicazioni su come poter realizzare dispositivi che generino forze aerodinamiche stabili realizzati tramite strutture per larga parte “vuote”, e dunque con pesi molto ridotti, ovviamente il tutto per dimensioni caratteristiche simili a quelle del seme studiato.

Gli autori dello studio, oltre al professor Simone Camarri, sono il professor François Gallaire (EPFL) e i dottori Francesco Viola, Pier Giuseppe Ledda e Lorenzo Siconolfi, questi ultimi tre laureati a Pisa e oggi afferenti alle università di Losanna e Twente.

Negli ultimi 40 anni l’inverno sulla costa toscana è diventato meno freddo: la temperatura media a gennaio e a febbraio è infatti aumentata di quasi 2 gradi, da circa 8°C a 9.9°C, e se si considera tutta la stagione, da novembre a marzo, l’incremento è stato di 1,6 gradi, da 9.9°C a 11.5°C. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista “Scientia Horticulture” e condotta dal gruppo di lavoro del professore Rolando Guerriero, oggi in pensione, composto da Raffaella Viti, Rossano Massai e Calogero Iacona del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali dell’Università di Pisa e da Susanna Bartolini dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna.

I ricercatori hanno analizzato i dati sulla fioritura di 40 diverse varietà di albicocco coltivate nell’Azienda Sperimentale dell’Ateneo pisano a Venturina (Livorno) per oltre quaranta anni, dal 1973 al 2016. Il periodo di fioritura degli alberi da frutto è infatti strettamente legato alle temperature dei mesi invernali e proprio per questo è uno degli indicatori più utilizzati per gli studi sui cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la ricerca pisana è poi un caso unico: a Venturina si trova una delle più importanti collezioni di germoplasma di albicocco di tutto il bacino del Mediterraneo e così è stato possibile osservare la fioritura di più varietà nelle stesse condizioni sperimentali e per un periodo molto lungo.


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Fioritura dell'albicocco


I risultati dello studio hanno mostrato un aumento significativo delle temperature medie mensili del periodo autunno-invernale con incremento più marcato a partire dagli anni '90. In particolare, l'escursione termica media giornaliera, cioè la differenza fra la temperatura massima diurna e la minima notturna, è diminuita di quasi 1 grado e mezzo passando da 10.1°C degli anni '70-'80 a 8.8°C del 2013-2016. Un calo drammaticamente significativo c’è stato poi anche per le Unità di Freddo, cioè le ore con una temperatura inferiore ai 7 °C che servono alle piante per il superamento della dormienza delle gemme a fiore, che sono passate da circa 1.300 negli anni '70-'80 a 800 nel 2012-2016.


“Dal punto di vista delle coltivazioni, si tratta di cambiamenti climatici che incidono negativamente sui principali processi biologici stagionali causando spesso produzioni irregolari e, di conseguenza, significative riduzioni della produttività dei frutteti – spiega Rossano Massai - La maggior parte delle varietà esaminate, appartenenti sia al germoplasma italiano che straniero, opportunamente raggruppate in funzione della diversa epoca di fioritura, ha mostrato negli anni importanti ritardi nell’epoca di fioritura e rilevanti riduzioni dell’intensità della fioritura”.

Un mancato o insufficiente superamento della dormienza influisce infatti negativamente sulla schiusura delle gemme e, di conseguenza, sull’epoca e sulla abbondanza della fioritura. Come risultato negli ultimi 40 anni, l'abbondanza della fioritura (cioè il numero di fiori per cm di ramo ed espressa con un indice da 1, scarsa, a 5, molto abbondante) si è quasi dimezzata rispetto al passato soprattutto per le varietà a fioritura precoce, passando da un valore medio di 3.7 negli anni '70 a poco più di 2 nel periodo 2010-16.

“Il quadro complessivo che emerge dalla ricerca lascia ipotizzare un cambiamento di scenario con uno spostamento più a nord della coltura – conclude Susanna Bartolini – se in passato nell’area della Maremma Toscana si potevano ottenere produzioni interessanti e economicamente sostenibili anche con varietà a fioritura più tardiva ora appare più opportuno orientarsi verso varietà a basso fabbisogno in freddo e adatte a climi caldi o semiaridi; inoltre il calo complessivo della produttività potrebbe portare ad una forte limitazione all’approvvigionamento locale di frutta e alla necessità di importazione dall’esterno del fabbisogno”. Questa ricerca diviene quindi importante proprio nell’ottica del contenimento delle conseguenze negative dovute all’impatto del cambiamento climatico, garantendo il mantenimento della produttività del frutteto.

È chiamata “editing genomico” la tecnica del “taglia e cuci” del DNA che promette di cancellare mutazioni dannose alla base di malattie genetiche ed, eventualmente, riscrivere quelle benefiche. Questa tecnica è al centro di un progetto di ricerca coordinato dall’Università di Pisa che ha appena ricevuto dall’Europa un finanziamento complessivo di 3 milioni di euro, di cui oltre 1 milione destinato all’Ateneo pisano.

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Il team della Prof. Raffa, Dipartimento di Biologia. Da destra: Dott.ssa Patrizia Colucci, Dott.ssa Martina Giannaccini, Dott.ssa Chiara Gabellini, Dott.ssa Alice Usai, Francesca Ragazzo, Ida Montesanti, Prof. Luciana Dente, Gabriele Picchi, Dott.ssa Sara De Vincentiis, Dott. Alessandro Falconieri, Dott.ssa Elena Landi, Vincenzo Scribano. Al centro Prof. Vittoria Raffa.

“L’obiettivo del progetto I-GENE è quello di sviluppare una tecnologia che consenta il riconoscimento di un unico bersaglio genomico nei 3 miliardi di coppie di basi del genoma umano – spiega la professoressa Vittoria Raffa del dipartimento di Biologia, coordinatrice del progetto – infatti, nonostante le enormi potenzialità, l’attuale utilizzo degli enzimi per l’editing genomico solleva problemi legati alla sicurezza e al concreto rischio di tagli al DNA non desiderati e quindi potenzialmente nocivi. Le recenti scoperte nel campo della nanomedicina e della biologia sintetica potrebbero rendere sicure le applicazioni in precedenza impraticabili di editing genomico”.

La tecnologia proposta vorrebbe implementare un concetto di porta logica AND multi-input, in cui l'output (l’editing del gene target) avviene se e solo se più input sono simultaneamente veri, consentendo il raggiungimento del livello di sicurezza necessario per applicazioni biotecnologiche e terapeutiche dell’editing del genoma.

“Come caso studio applicheremo questo concetto nell’eliminazione selettiva di cellule di melanoma in vitro e in vivo” spiega il Prof Mauro Pistello, alla guida del team di Medicina Traslazionale e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP) che agirà come Partner di progetto. Il progetto vedrà anche il contributo dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT, Genova), guidato dal dottor Francesco Tantussi.

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Il team del Prof Mauro Pistello, Medicina Traslazionale e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP). Da sinistra: Prof Mauro Pistello, Dott.ssa Paola Quaranta, Prof Giulia Freer, Dott. Michele Lai.

Insieme ai partner accademici, nell’impresa sono coinvolte le tre industrie Prochimia Surfaces (Polonia), Lionix (Olanda) e Msquared (Regno Unito) che supporteranno lo sviluppo tecnologico e lo sfruttamento industriale dei risultati. Il progetto, la cui stesura è stata supportata dalle competenze dell’Ufficio Ricerca del nostro Ateneo, si inserisce nel prestigioso schema di finanziamento “Horizon 2020, Excellent Science, Future and Emerging Technologies (FET)” il cui obiettivo specifico è promuovere tecnologie radicalmente nuove per mezzo dell'esplorazione di idee innovative e ad alto rischio fondate su basi scientifiche.

 

 

È nato ufficialmente il 1 luglio a Milano l’Istituto di Robotica e Macchine Intelligenti (I-RIM) che riunisce tutti gli attori e scienziati italiani del settore, dalla ricerca più visionaria all’industria più aperta alle tecnologie avanzate. Il suo presidente neoeletto è il professore Antonio Bicchi dell’Università di Pisa e dell’IIT. I-RIM è un’associazione nazionale no-profit che vuole promuovere lo sviluppo e l’uso delle Tecnologie dell’Interazione per il benessere dei cittadini e della società.

“Il motto del nostro neonato istituto è Diamo corpo all’Intelligenza Artificiale – dice Antonio Bicchi – Le Tecnologie dell’Interazione (IAT) si concentrano infatti su quegli aspetti della Intelligenza Artificiale che hanno a che fare con il mondo fisico e su come modificarne il comportamento. Sono quindi complementari alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT), che si occupano principalmente di raccogliere, trasmettere e analizzare dati.”

 

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Il professore Antonio Bicchi

 

Alcuni campi in cui le Tecnologie dell’Interazione sono indispensabili sono ad esempio l’ausilio fisico alle persone anziane o disabili, la riduzione dei pericoli e della fatica nel lavoro, il miglioramento dei processi di produzione di beni materiali e la loro sostenibilità, la sicurezza, l’efficienza e la riduzione dell’impatto ambientale del trasporto delle persone e dei beni, il progresso delle tecniche diagnostiche e chirurgiche.

I-RIM verrà presentato al pubblico in un grande appuntamento di tre giorni che si svolgerà nei padiglioni 9 e 10 della Fiera di Roma, dal 18 al 20 ottobre 2019. Il calendario è ricchissimo di incontri per gli associati, ma aperti anche a tutti gli interessati. La tre giorni è organizzata in coincidenza e in collaborazione con Maker Faire – The European Edition 2019, la kermesse tecnologica che attira decine di migliaia di fan delle tecnologie. La Tre Giorni e Maker Faire si svolgeranno in parallelo nella Fiera di Roma.

 

La rucola aiuta a combattere l’ipertensione e le malattie cardiovascolari grazie ad un principio attivo in grado di abbassare la pressione arteriosa che conferisce a questa insalata proprio il suo caratteristico sapore pungente. La scoperta arriva dall’Università di Pisa dove un team di farmacologi guidato dal professore Vincenzo Calderone ha condotto lo studio in collaborazione con le università di Firenze e “Federico II” di Napoli e il “Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia” (CREA) di Bologna. La ricerca, pubblicata sul “British Journal of Pharmacology”, la rivista in campo farmacologico più prestigiosa a livello internazionale, ha infatti dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina, un principio attivo prodotto dalla pianta come meccanismo di difesa e che conferisce alla rucola proprio il suo caratteristico sapore ed odore pungente.

“Quando le foglie di rucola vengono tagliate o masticate – spiega Alma Martelli ricercatrice dell’Università di Pisa e prima autrice della pubblicazione – i glucosinolati e l’enzima mirosinasi, entrano in contatto generando l’isotiocianato Erucina. Se quest’ultimo per la pianta è un meccanismo di difesa che serve per allontanare ad esempio gli animali, per l’uomo è invece un principio attivo di origine naturale in grado di rilassare la muscolatura dei vasi e di abbassare la pressione arteriosa attraverso il rilascio di un gastrasmettitore, il solfuro d’idrogeno”.

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Da destra, Eugenia Piragine, Alma Martelli, Vincenzo Calderone, Valentina Citi e Lara Testai


I ricercatori hanno dimostrato le proprietà vasorilascianti ed anti-ipertensive dell’isotiocianato Erucina sia in vitro, su cellule di aorta umana e su vasi isolati, che in vivo, su animali spontaneamente ipertesi.
“Questa scoperta ha importanti ripercussioni in campo medico poiché per ottenere questi effetti antiipertensivi possiamo certamente somministrate il principio attivo purificato, sotto forma di integratore ma, almeno in parte, possiamo ottenere gli stessi effetti anche attraverso l’alimentazione - sottolinea Alma Martelli - infatti diversamente dalle altre piante appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae come il cavolo, il broccolo o il rafano, la rucola si può mangiare cruda così da non degradare l’enzima con la cottura e assicurare la sintesi di Erucina”.


La dottoressa Alma Martelli che ha condotto la ricerca, è ricercatrice in Farmacologia al Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa dal 2014. Già nel 2016 ha ricevuto un importante premio internazionale, il “Ciro Coletta Youg Investigator Award”, per le sue ricerche sugli isotiocianati e il solfuro d’idrogeno. Più di recente, nel marzo scorso, ha ricevuto il premio ”Best Oral communication Award” nell’ambito del congresso “Le Basi farmacologiche dei Nutraceutici” proprio per la ricerca sulle proprietà anti-ipertensive di Erucina.


La dottoressa Martelli lavora in un team guidato dal professore Vincenzo Calderone di cui fanno parte la professoressa Lara Testai e le dottoresse Valentina Citi ed Eugenia Piragine. Da anni il gruppo studia le proprietà cardiovascolari del solfuro d’idrogeno occupandosi anche di farmacologia dei composti di origine naturale, due filoni di ricerca che si sono uniti in questo lavoro appena pubblicato sul “British Journal of Pharmacology”.

 

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