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Fighting infant mortality thanks to artificial intelligence with tools capable of assisting doctors and promptly identifying risk factors in preterm infants. This is the reason the Italian team created PISA (Preterm Infants Survival Assessment), an application to evaluate the survival of preterm infants, now freely available to the international scientific and medical community.

The study which led to the creation of PISA has been published in ‘Scientific Reports’, a journal from the Nature group, and was carried out by researchers from the Department of Computer Science at the University of Pisa coordinated by Professor Alessio Micheli with Davide Bacciu, PhD and the team of neonatologists led by Dr. Luigi Gagliardi from Versilia Hospital (north-west Tuscany health authority).

In order to understand what PISA is and how it works, it is possible to access the website http://pisascore.itc.unipi.it/single-sample-mode/, fill in the required data – for example birth weight, sex or birth mode – and click to receive an answer. However, this simplicity of use belies sophisticated technology based on ‘Machine Learning’, automatic learning, or rather the idea that computers can learn to carry out specific tasks without being programmed to do so, thanks to how they use the data in their possession.

“In order to create PISA,” explains Alessio Micheli, “we took into consideration the data, obviously anonymous, of over 29,000 preterm Italian infants and we used this information to create ‘Machine Learning’ models to obtain a more accurate prediction algorithm than those currently in use at international level, which are, instead, based on classical statistical models.”


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Professor Alessio Micheli and Davide Bacciu, Phd

The study which led to the creation of PISA was, therefore, the first on a worldwide basis to gather such an enormous quantity of data; in particular, the researchers used information from the Italian Neonatal Network, a project which includes 89 hospitals all over Italy with Versilia Hospital as one of the coordinating centres.

“Each year around 4,500 infants are born very preterm, before the 30th week of gestation or weighing less than 1,500g, and while they represent less than 1% of births, they account for more than half the rate of infant mortality in Italy and the developed countries,” emphasizes Luigi Gagliardi. “ PISA, therefore, represents an important tool both in the care of individual patients, and to increase understanding over the causes of mortality, in order to identify more effective therapies, and ultimately to improve the prognosis of this fragile population.”

The creation of PISA, also funded by the University of Pisa thanks to PRA (the University of Pisa Research Project) ‘Metodologie informatiche avanzate per l’analisi di dati biomedici’, is part of the research activity carried out by the Computational Intelligence & Machine Learning group, CIML-Unipi, and includes PhD student Marco Podda who is the co-author of the work.

 

 

 

Combattere la mortalità infantile grazie all’intelligenza artificiale e con strumenti in grado di aiutare i medici a identificare tempestivamente i fattori di rischio nei neonati prematuri. E’ con questo obiettivo che un team tutto italiano ha creato “PISA” (Preterm Infants Survival Assessment), un applicativo per stimare la sopravvivenza dei neonati prematuri, ora a disposizione gratuitamente di tutta la comunità scientifica e medica internazionale e in prospettiva utilizzabile più diffusamente in ambito clinico.

Lo studio che ha portato alla realizzazione di PISA è stato pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo Nature, ed è stato condotto dai ricercatori del dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa coordinati dal professore Alessio Micheli e dal dottor Davide Bacciu e dall’equipe di neonatologi diretta dal dottor Luigi Gagliardi dell’Ospedale Versilia (AUSL Toscana Nord Ovest).

Per avere un’idea di cosa è PISA e di come funziona basta andare sul sito http://pisascore.itc.unipi.it/single-sample-mode/, inserire i dati richiesti – come ad esempio peso alla nascita, sesso o modalità di parto – e cliccare per il responso. Ma tanta semplicità d’uso nasconde in realtà una sofisticata tecnologia basata sul “Machine Learning”, l’apprendimento automatico, ovvero l’idea che i computer possono imparare ad eseguire compiti specifici senza essere programmati per farlo, grazie al modo in cui utilizzano i dati di cui dispongono.


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Da sinistra il professore Alessio Micheli e il dottor Davide Bacciu

“Per realizzare PISA - spiega Alessio Micheli - abbiamo preso in considerazione i dati, ovviamente anonimi, di oltre 29.000 neonati pretermine italiani e li abbiamo utilizzati per creare modelli di "Machine Learning" in modo da ottenere un algoritmo di previsione più accurato di quelli attualmente in uso a livello internazionale, che sono invece basati su modelli statistici classici".

Lo studio che ha portato alla creazione di PISA è stato il primo a livello mondiale a mettere insieme una quantità di dati così ingenti; in particolare i ricercatori hanno utilizzato le informazioni provenienti dalla banca dati del Network Neonatale Italiano, un progetto che coinvolge 89 ospedali in tutta Italia e che è coordinato anche dalla Neonatologia dell’Ospedale Versilia.

“Ogni anno in Italia nascono circa 4500 neonati molto prematuri, sotto le 30 settimane o sotto i 1500 g di peso alla nascita, e sebbene rappresentino meno dell’ 1 per cento delle nascite, essi contribuiscono per più della metà della mortalità infantile in Italia e nei paesi sviluppati – sottolinea Luigi Gagliardi – PISA rappresenta quindi uno strumento importante sia per la cura dei singoli pazienti, che per aumentare la comprensione circa le cause della mortalità, per individuare terapie più efficaci, e in definitiva per migliorare la prognosi in questa popolazione fragile”.

La realizzazione di PISA, finanziata anche con fondi dell’Università di Pisa grazie al PRA “Metodologie informatiche avanzate per l’analisi di dati biomedici”, si inserisce nell’ambito dell’attività di ricerca del gruppo di Computational Intelligence & Machine Learning, CIML-Unipi, che comprende anche il dottorando Marco Podda coautore del lavoro.

 

 

stefano del prato okUn team di ricercatori ha individuato un nuovo farmaco capace di ridurre del 22 per cento il rischio di infarto del miocardio, di ictus nei pazienti o mortalità cardiovascolare affetti da diabete di tipo 2 con pregressa malattia cardiovascolare.

Lo studio denominato Harmony-Outcomes è stato coordinato dai professori Stefano Del Prato (foto a destra) del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa e John McMurray del British Heart Foundation Cardiovascular Research Centre dell’Università di Glasgow. Il lavoro, finanziato da GSK, è stato pubblicato sulla rivista “The Lancet” e presentato il 2 ottobre scorso al congresso annuale della European Association for the Study of Diabetes (EASD).
Complessivamente la ricerca, che ha coinvolto 9463 pazienti di 28 paesi diversi, ha mostrato le capacità cardioprotettive di albiglutide, un farmaco della classe degli agonisti del recettore del GLP1.

“Siamo veramente contenti di questi risultati che forniscono un’ulteriore, solida evidenza all’effetto cardioprotettivo di alcuni agonisti del recettore del GLP1, farmaci già impiegati per il controllo della glicemia nei pazienti con diabete tipo 2 – sottolinea Stefano Del Prato - tenuto conto che l’evento cardiovascolare rappresenta la più comune e tragica complicanza per queste persone.”

Le varietà antiche e moderne di grano duro hanno la stessa capacità di entrare in simbiosi con i microrganismi benefici del suolo per estrarre grandi quantità di nutrienti minerali fondamentali per la loro crescita, primi tra tutti fosforo e azoto. E’ questo quanto emerge da uno studio pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo "Nature", e condotto da un team di microbiologi agrari dell’Università di Pisa e del CNR, coordinati dalla professoressa Manuela Giovannetti, e dai genetisti del CREA (Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), coordinati dai dottori Pasquale de Vita e Luigi Cattivelli.

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La ricerca, condotta su 108 diverse varietà di grano duro sia antiche che moderne, ha infatti dimostrato per la prima volta che le ripetute selezioni a cui il grano duro è andato incontro nel corso degli anni, mirate ad ottenere varietà più produttive e a taglia ridotta, non hanno provocato effetti negativi sulla sua capacità di entrare in simbiosi con particolari microrganismi benefici attraverso i quali le piante si assicurano il nutrimento dal terreno. I ricercatori hanno infatti verificato che i geni Rht, responsabili della riduzione della taglia e associati all’aumento del raccolto nelle moderne varietà di grano, non interferiscono con lo sviluppo della simbiosi.

“Il grano duro, utilizzato principalmente per la produzione di pasta, è una delle più importanti piante agrarie, e rappresenta un elemento chiave della dieta mediterranea - spiegano Cristiana Sbrana del CNR e Luciano Avio dell’Ateneo pisano - Noi in questo studio abbiamo dimostrato che non ci sono differenze fra le diverse varietà di grano duro, sia antiche che moderne, riguardo alla loro capacità di entrare in simbiosi con i funghi benefici micorrizici”.

La collaborazione tra genetisti e microbiologi ha inoltre permesso di individuare alcuni marcatori genetici, presenti in diversi cromosomi, coinvolti nei cambiamenti fisiologici che avvengono nella pianta durante lo sviluppo della simbiosi.

“La mappatura dei tratti genetici associati alla simbiosi micorrizica, individuati per la prima volta nel grano duro - sottolinea Manuela Giovannetti - potrà permettere la selezione di piante altamente suscettibili alla simbiosi, da impiegare in agricoltura sostenibile, e migliorare la comprensione delle relazioni tra caratteri fenotipici e genetici in questa importante pianta alimentare”.

 

Un fegato artificiale miniaturizzato, costruito con chip microfluidici in silicio per i test farmacologici, ha finalmente dimostrato che i mini organi artificiali possono essere considerati modelli sperimentali attendibili, aprendo la strada a una possibile eliminazione dell’uso di cavie animali. Lo studio è stato pubblicato su Advanced Functional Materials e condotto dal team di ricerca di Giuseppe Barillaro del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, con la collaborazione del gruppo di Nico Voelcker della Monash University.

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Humans-on-chip mostra come passare dall’organo alla sua “astrazione” funzionale fino al chip che lo mima. 

“La novità di questo modello di organo – spiega Barillaro – è che si compone di strutture tridimensionali che hanno la dimensione effettiva delle cellule epatiche e che sono disposte in modo da replicare anche architettonicamente l’organizzazione del fegato nel lobulo epatico. Negli esseri umani, le cellule epatiche sono disposte in cordoni collocati tra le vene (sonusoidi) che entrano nel lobulo. La diposizione delle cellule in cordoni permette di riprodurre negli organi artificiali alcune funzioni fondamentali del fegato, come la detossificazione e il mantenimento dell’omeostasi”.

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L’organo-chip e lo stesso organo con la simulazione del flusso sanguigno.

Replicare questa struttura è stato possibile grazie all’uso di nanotecnologie simili a quelle usate per i circuiti integrati. Le strutture così costruite vengono alimentate con un sistema microfluidico. “Quello che abbiamo dimostrato – prosegue Barillaro – è che le strutture così composte riescono a mantenere l’attività e le caratteristiche della cellula più a lungo rispetto a quanto non accada con una normale coltura, un mese invece che una settimana, e creare condizioni fisiologiche molto simili a quelle del corpo umano. Questo permette test farmacologici a medio termine, con la conseguenza di poter ridurre l’uso di cavie animali. Replicando in modo sempre più accurato la struttura del lobulo epatico potremo arrivare a effettuare test farmacologici con risultati ancora più attendibili e vicini a quelli ottenuti sull’uomo, e anche ricreare su chip alcune tra le più importanti funzionalità del fegato per andare verso una medicina personalizzata”.

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La struttura degli epatiti vista con il microscopio confocale.

Al momento gli organi-chip hanno destato l’interesse sia dell’Europa che degli Stati Uniti, che hanno avviato la creazione di uno Humanchip, ovvero la riproduzione di diversi organi chip, che poi verranno messi in connessione tra loro per riprodurre la fisiologia umana. Questo renderà possibile testare farmaci su un organo specifico, ma anche controllarne l’impatto sugli altri. In Europa al momento è ai primi passi la costruzione di una flagship sugli organi chip, che includerebbe non solo partner accademici, ma aziende interessate a portare avanti i risultati della sperimentazione.

A team of scientists from the Yale School of Medicine and the Department of Biology at the University of Pisa has identified a specific stem cell population, known as neuroepithelial stem cells, which have proved to be particularly effective in the repair in animal models of spinal cord injury.  The experiment demonstrated that these cells are able to integrate within the damaged tissue, extend processes by a few centimeters after the transplant and offer motor and functional recovery in the animals subjected to the treatment. Furthermore, as the laboratory tests show, recovery is proportionate to the extent of the injury: if, for example, the spinal cord damage is not higher than 25%, there is a significant improvement in the use of the lower limbs within two months.

“Thanks to this study, it has been demonstrated for the first time that the anatomical origin of stem cells is of vital importance to the success of transplants,” explains Marco Onorati, a researcher from the University of Pisa and one of the first authors of the study published in the “Nature Communications” journal.  

In fact, while similar in vitro, the neural stem cells which have the same origin as the recipient tissue (in this case the spinal cord) turned out to be much more efficient than those with a diverse origin (for example derived from the brain) at re-establishing connections with the damaged area and guaranteeing the formation of new neuronal circuits.

“Not all stem cells have the same potential,” concludes Marco Onorati, “and the knowledge we now have, thanks to this study on neuroepithelial stem cells and how they react in the case of spinal cord injury, could prove to be useful for future research.”

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Neuroepithelial stem cells (in green) transplanted into the animal model of spinal cord injury (in red)

Within the field of the study, Marco Onorati, a researcher from the Unit of Cell and Developmental Biology from the Department of Biology, directed the part dealing with the derivation and characterization of the human neuroepithelial stem cells and their differentiation into mature neurons in order to study their function in vitro. The study was coordinated by Professor Steve Strittmatter from the Yale School of Medicine. The other first co-authors of the research are Maria Teresa Dell’Anno (who is at present continuing her research on stem cells in the neurological field at the Fondazione Pisana per la Scienza) and Xingxing Wang.

 



 

Un team di scienziati della Yale School of Medicine e del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa ha individuato una particolare popolazione di cellule staminali, dette neuroepiteliali, che si sono rivelate particolarmente efficaci nel riparare le lesioni al midollo spinale. La sperimentazione condotta su modelli animali ha mostrato che queste particolari cellule sono in grado di integrarsi nel tessuto danneggiato, estendere prolungamenti per alcuni centimetri dopo il trapianto e fornire un recupero motorio e funzionale. Inoltre, come hanno evidenziato i test di laboratorio, il recupero è proporzionale all’entità alla lesione: se ad esempio il danno al midollo spinale non supera il 25%, c’è un miglioramento significativo nell’uso degli arti inferiori entro due mesi.

“Per la prima volta, grazie a questo studio è stato quindi dimostrato che l’origine anatomica delle cellule staminali ha una importanza cruciale per il successo del trapianto”, spiega Marco Onorati, ricercatore dell’Unità di Biologia Cellulare e dello Sviluppo del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano, e fra i primi autori dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications.

Infatti, per quanto simili in vitro, le cellule staminali neuronali che hanno un’origine analoga a quella del tessuto ricevente (in questo caso il midollo spinale) si sono rivelate molto più efficienti di quelle con una diversa derivazione (ad esempio provenienti dal cervello) nel ripristinare le connessioni del midollo lesionato e garantire la formazione di nuovi circuiti neuronali.

 

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Cellule staminali neuroepiteliali (in verde) trapiantate nel modello animale di midollo spinale lesionato (in rosso)

“Non tutte le cellule staminali hanno quindi le stesse potenzialità – conclude Marco Onorati – e quello che ora sappiamo grazie a questo studio sulle cellule staminali neuroepiteliali e su come agiscono nel caso di lesione al midollo spinale può rivelarsi utile per indirizzare il futuro della ricerca”.

Lo ricerca pubblicata su “Nature Communications” è stata coordinata dal professore Steve Strittmatter della Yale School of Medicine. In particolare, Marco Onorati ha guidato la parte sulla derivazione e la caratterizzazione delle cellule staminali neuroepiteliali umane e il loro differenziamento verso neuroni maturi per studiarne la funzione in vitro. Oltre a lui, gli altri primi coautori dell’articolo sono due ricercatori della Yale School of Medicine, Maria Teresa Dell’Anno (che adesso continua i suoi studi sulle cellule staminali in ambito neurologico presso la Fondazione Pisana per la Scienza) e Xingxing Wang.
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Riferimenti all’articolo scientifico:
Dell'Anno MT, Wang X, Onorati M (e altri), “Human neuroepithelial stem cell regional specificity enables spinal cord repair through a relay circuit”, Nature Communications



 

bright 18 bannerVenerdì 28 settembre, in contemporanea con le principali città della Toscana, torna BRIGHT, la Notte delle ricercatrici e dei ricercatori edizione 2018. A Pisa il programma della manifestazione prevede una mappa di eventi che vedrà protagonisti le ricercatrici e i ricercatori delle università e dei centri di ricerca promotori dell’iniziativa: Università di Pisa, Scuola Normale Superiore, Scuola Superiore Sant’Anna, CNR, INGV, INFN, Scuola IMT Alti Studi Lucca ed EGO, l’osservatorio che ospita il rilevatore di onde gravitazionali Virgo. Quest’anno la Notte delle ricercatrici e dei ricercatori cade nella settimana in cui a Pisa si svolge il Festival internazionale della robotica, che ospita anche uno degli stand in cui i ricercatori illustreranno al pubblico le loro scoperte.

L’inaugurazione della manifestazione è prevista alle 17 in Logge di Banchi, con il saluto dei rappresentanti di tutte le istituzioni e del sindaco Michele Conti.

Il programma di BRIGHT è stato presentato in rettorato da Paolo Mancarella, rettore dell'Università di Pisa, Pierdomenico Perata, rettore Scuola Sant'Anna, Domenico Laforenza, presidente Area CNR Pisa, Gilberto Saccorotti, direttore INGV, Michele Viviani, delegato all'outreach INFN e Stavros Katsanevas, direttore EGO-Virgo.

Le varie attività proposte appartengono a 5 tematiche principali: Cibo e salute per tutti, Vita e tecnologie, Meraviglie naturali, Società di oggi e di domani, Patrimonio culturale europeo e a Pisa si snoderanno dalle vie del centro fino all’Area San Cataldo (CNR e Dipartimento di Chimica), passando per i musei dell’Ateneo (aperti al pubblico fino a tarda notte). Per collegare gli eventi organizzati in centro con quelli dell’Area San Cataldo (CNR e Dipartimento di Chimica) anche quest’anno è stato attivato un servizio di navetta gratuito.

Come ogni anno i cittadini potranno incontrare e conoscere i veri protagonisti di BRIGHT, le ricercatrici e i ricercatori, che racconteranno e sveleranno al pubblico il loro lavoro e le loro scoperte.

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Da sinistra: Gilberto Saccorotti, Pierdomenico Perata, Paolo Mancarella, Domenico Laforenza, Michele Viviani, Stavros Katsanevas.

I ricercatori mostreranno i risultati delle proprie ricerche a partire dalle 16.30 presso stand in Largo Ciro Menotti, Logge di Banchi, in Gipsoteca, in Piazza Martiri della Libertà e nella sede della Scuola Sant’Anna; ne parleranno con i cittadini negli aperitivi della ricerca, nelle librerie e nei seminari organizzati dal CNR nell’area di San Cataldo; i più piccoli potranno divertirsi con i giochi alla scoperta del mondo o partecipando agli incontri a loro dedicati in libreria; biblioteche, collezioni e laboratori degli enti di ricerca coinvolti rimarranno aperti e ospiteranno visite guidate per adulti e bambini. 

Il dipartimento di Chimica e Chimica industriale e il dipartimento di Scienze della Terra rimarranno aperti con un ricco programma di attività, visite, laboratori e giochi per bambini e famiglie.

Il programma di intrattenimento prevede tra le vare iniziative un concerto del Coro Galilei nel chiostro del Palazzo della Carovana della Scuola Normale; alla Scuola Sant’Anna uno show cooking all’insegna del benessere e della salute; al CNR due concerti rock, lo spettacolo su Galileo del gruppo di lettori del Teatro Sant’Andrea e la consueta spaghettata finale. Radioeco, la web radio degli studenti dell’Università di Pisa, sarà presente con una postazione in Logge di Banchi, da dove condurrà interviste e racconterà le storie di ricercatrici e ricercatori.

Oltre a Pisa, gli appuntamenti di BRIGHT 2018 saranno ospitati anche sul territorio: a Lucca, con un programma di eventi organizzati dalla Scuola IMT Alti Studi nel Complesso di San Francesco, a Viareggio, con iniziative dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR ospitate a Villa Borbone, a Pontedera nel Polo Valdera della Scuola Sant’Anna, a Livorno nel Laboratorio Scoglio della Regina dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Sant’Anna; a Cascina con tour guidati, conferenze e osservazioni astronomiche all’European Gravitational Observatory (EGO), sito dell’esperimento Virgo, che lo scorso anno ha rilevato segnali di onde gravitazionali in collaborazione con LIGO.

Il programma dettagliato è disponibile sul sito http://www.bright-toscana.it.

A questo link è disponibile una descrizione delle attività proposte nei dipartimenti dell'Università di Pisa.

A questo link è disponibile una descrizione delle attività proposte dal Sistema Museale d'Ateneo.

 

C’è anche l’Università di Pisa tra i partner di PRIMAGE, il progetto finanziato dall’Unione europea nell’ambito di Horizon 2020 che mira a creare una biobanca oncologica per immagini. PRIMAGE (PRedictive In-silico Multiscale Analytics to support cancer personalized diaGnosis and prognosis, Empowered by imaging biomarkers) avrà una durata complessiva di 4 anni, con un finanziamento totale di 10 milioni di euro, di cui 640.000 saranno destinati all’Università di Pisa e al dipartimento di Ricerca traslazionale diretto dal professor Gaetano Privitera, uno dei partner principali del progetto in quanto impegnato nel coordinamento dello sviluppo della biobanca. 

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Il team PRIMAGE del dipartimento di Ricerca traslazionale, da sinistra la professoressa Fabiola Paiar, direttore della UO di Radioterapia della AOUP, il professor Emanuele Neri, direttore della SD Radiodiagnostica 3 della AOUP e responsabile scientifico del progetto, la professoressa Paola Erba, professore associato in servizio presso la UO di Medicina Nucleare.

«Il nostro obiettivo è dar vita a una biobanca di immagini basata su cloud per supportare il processo decisionale nella gestione clinica dei tumori solidi maligni, offrendo strumenti predittivi per assistere diagnosi, prognosi, scelta delle terapie e follow-up del trattamento – spiega il professor Emanuele Neri, professore di Diagnostica per immagini e radioterapia dell’Ateneo e coordinatore del progetto – Tale strumento si basa sullo sviluppo e sulla validazione di nuovi biomarcatori di imaging mediante algoritmi di radiomica e radiogenomica, correlando multipli big data (clinici, epidemiologici, genetici, di imaging). I dati raccolti consentiranno di creare dei profili o modelli digitali dei pazienti oncologici e potranno essere utilizzati come riferimento per la personalizzazione dei trattamenti, la stratificazione del rischio allo sviluppo di neoplasie, la stima della prognosi e della responsività ai trattamenti».

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Schema del sistema di supporto alla diagnosi che verrà sviluppato nell’ambito del progetto PRIMAGE.

Il progetto prevede inoltre l’implementazione di algoritmi di intelligenza artificiale in grado di effettuare simulazioni e analisi dei multipli dati della biobanca, sviluppando un sistema “intelligente” di supporto alla diagnosi (in-silico decision making). Uno strumento che consentirà alla diagnostica per immagini di aumentare la precisione nella diagnosi e nel follow-up della malattia oncologica, e all’oncologo di sviluppare, su modelli digitali, le terapie personalizzate. Il progetto ambisce inoltre a fornire alla comunità scientifica (secondo il principio dell’Open Science) uno strumento open source di ricerca per la prevenzione e per lo sviluppo di nuove terapie del cancro.

PRIMAGE nasce da una consolidata collaborazione che il professor Emanuele Neri, insieme a Fabiola Paiar e a Paola Anna Erba, anche loro professori del dipartimento di Ricerca traslazionale, hanno attivato con l’Università di Valencia (Ospedale La Fe) e l’Azienda Spin-off della stessa università, QUIBIM (QUantitative Imaging Biomarkers In Medicine). Tra i vari partners del progetto anche l’European Institute of Biomedical imaging and Research, che coordina le attività di ricerca della Società Europea di Radiologia (di cui il professor Neri è chairman del “eHealth and Informatics Subcommitte”). Il gruppo di ricerca ha di recente ottenuto un finanziamento dell’Associazione Italiana per la ricerca sul cancro su un progetto dedicato allo sviluppo di nuovi biomarcatori di imaging nelle neoplasie prostatiche, coordinato dalla Prof.ssa Erba.

«Un particolare ringraziamento da parte del team PRIMAGE va all’Unità Servizi per la Ricerca dell’Università di Pisa – specifica il professor Neri – in particolare alla dottoressa Chiara Caccamo, che ha supportato i ricercatori nella submission del progetto».


Ha una vita propria e indipendente rispetto alle piante che nutre. La sorprendete scoperta di un team tutto pisano e tutto al femminile riguarda la “wood wide web”, la rete fungina così soprannominata dalla rivista “Nature” che vive nel suolo in simbiosi con le radici trasferendo acqua e nutrienti alle piante.

Autrici dello studio appena pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” del gruppo editoriale "Nature", sono tre microbiologhe, la professoressa Manuela Giovannetti come coordinatrice e Alessandra Pepe, entrambe dell’Università di Pisa, e Cristiana Sbrana del CNR.


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Il Wood Wide Web


“Queste nuove conoscenze, oltre a fornire dati preziosi sulla capacità di sopravvivenza a lungo termine della rete assorbente fungina, ci indicano la strada da seguire per il mantenimento della fertilità biologica del suolo - spiega la professoressa Giovannetti - una strada che deve tener conto dei rapporti di cooperazione tra piante e microrganismi benefici, nell’ottica della loro utilizzazione nella produzione sostenibile di cibo di alta qualità”.

La ricerca è durata due anni e si è svolta nei laboratori di Microbiologia del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Ateneo pisano, dove è stato messo a punto un sistema sperimentale in vivo per visualizzare e monitorare la crescita e la vitalità della rete fungina.


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Il Wood Wide Web


“Le piante si nutrono principalmente utilizzando le capacità del fungo benefico simbionte di esplorare il terreno, assorbire i nutrienti e trasferirli alle radici attraverso una rete di cellule allungate tubulari interconnesse - racconta la dottoressa Cristiana Sbrana, ricercatrice del CNR - Il nostro studio ha affrontato una domanda cruciale: la vita di tale rete è dipendente dalla vita della pianta ospite? Oppure, alla morte della pianta (come avviene dopo la raccolta per molte colture), la rete mantiene la sua vitalità e funzionalità?”.

“Gli esperimenti effettuati durante le nostre ricerche hanno dimostrato che la vita della “wood wide web” è disaccoppiata dalla vita della pianta - ha concluso Alessandra Pepe, che ha svolto parte del suo dottorato proprio su questo argomento - Anche 5 mesi dopo la rimozione della parte aerea della pianta, la rete è capace di mantenere la sua vitalità e funzionalità, e di stabilire nuove simbiosi con altre piante”.

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