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Bacillus Clausii probioticsIl gruppo di ricerca della professoressa Emilia Ghelardi, docente di Microbiologia all'Università di Pisa, ha condotto uno studio che ha messo a confronto le formulazioni probiotiche più diffuse in Italia, valutandone le caratteristiche. I risultati sono stati pubblicati nel mese di marzo sulla rivista scientifica “Frontiers in Medicine” e presentati al quarto Congresso Internazionale "Probiotics, Prebiotic in Pediatrics" sul mondo dei probiotici che si tenuto a Bari da 12 al 14 aprile.

In questo lavoro sono stati confrontati, in maniera qualitativa e quantitativa, la vitalità dei ceppi probiotici commerciali più diffusi in Italia, rivelando una buona qualità microbiologica ma notevoli differenze nel comportamento, in presenza di acidi e bile, per le formulazioni probiotiche commercializzate in Italia. Enterogermina®, Yovis®, VSL3® sono risultate le uniche formulazioni in grado di tollerare la condizione acida dell’ambiente gastrico. Inoltre, è stato dimostrato che soltanto i microrganismi presenti in Enterogermina® sono in grado di moltiplicarsi nel fluido gastrointestinale, resistendo all'azione della bile e della pancreatina.

emilia ghelardi«Il nostro studio ha suggerito che per la valutazione delle qualità di un probiotico bisogna tener conto di due aspetti – spiega la professoressa Ghelardi (a sinistra nella foto)- Il probiotico deve, in primo luogo, passare indenne attraverso il tratto gastrointestinale e in particolare resistere ai succhi gastrici e alla bile, poi in secondo luogo, deve essere in grado di colonizzare l’intestino e mantenere le funzioni benefiche per il quale è stato somministrato, nonché deve essere esente da contaminazioni.

Relativamente alla capacità di resistere all’acidità gastrica, i conteggi microbici hanno mostrato una significativa riduzione del numero di organismi vitali dopo l’incubazione nel succo gastrico della maggior parte delle formulazioni considerate. Tra le formulazioni considerate, ben sette hanno subito una significativa riduzione del numero di organismi vitali dopo l'incubazione nel succo intestinale, mentre le spore di B. clausii contenute in Enterogermina® sono state le uniche in grado non solo di sopravvivere ma di moltiplicarsi attivamente nel fluido intestinale».

Questo lavoro ha confermato che le caratteristiche qualitative di un prodotto probiotico declinano nella sua qualità microbica e nella resistenza all'ambiente gastrico.

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Guarda l'intervista di ADNkronos alla professoressa Ghelardi.

Partite le prime collisioni tra elettroni e antielettroni nell’acceleratore SuperKEKB, progettato per diventare l’acceleratore di particelle a più alta luminosità al mondo. Il 25 aprile nel Laboratorio KEK, a Tsukuba, in Giappone, è entrato nel vivo l’esperimento Belle II, frutto di una vasta collaborazione internazionale (750 fisici e ingegneri provenienti da 25 paesi), al quale partecipa anche l’Università di Pisa. L’obiettivo degli scienziati è chiarire alcuni misteri ancora aperti che riguardano ad esempio l’asimmetria tra materia e antimateria, la materia oscura o le onde gravitazionali esplorando i territori della fisica oltre il Modello Standard. La ricerca si baserà sulla misura di altissima precisione di decadimenti rari di particelle elementari, come i quark beauty, i quark charm e i leptoni tau.

 

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L’acceleratore SuperKEKB

 

“Queste prime collisioni rappresentano una pietra miliare nello sviluppo dell’acceleratore e dell’esperimento - sottolinea Francesco Forti dell’Università di Pisa e dell’INFN, presidente del comitato esecutivo dell’esperimento - Per quanto siano il punto di arrivo del lavoro di costruzione, sono soltanto il punto di partenza della presa dati e delle analisi, che ci porteranno a esplorare nuovi territori della fisica”.

“È emozionante osservare per la prima volta nel nostro rivelatore i segnali delle particelle prodotte nelle collisioni elettrone-positrone”, commenta Giuseppe Finocchiaro, ricercatore dei Laboratori Nazionali di Frascati dell’INFN, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento. “Terminata la costruzione, inizia ora una nuova fase dell'esperimento, in cui raccoglieremo i primi dati e dovremo imparare a decodificare con precisione la risposta dei nostri complessi strumenti di misura."

 

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Un gruppo di fisici di Belle II nella stanza di controllo dell'esperimento al momento della conferma delle prime collisioni dei fasci. Fra loro, al centro, anche i tre “pisani” Laura Zani, dottoranda dell’Università di Pisa, Luigi Corona, laureando dell’Università di Pisa e Alberto Martini, laureato all’Università di Pisa

 

A differenza del Large Hadron Collider (LHC) del CERN a Ginevra, che è l’acceleratore più potente del mondo dove vengono fatti scontrare protoni e ioni a energie record, SuperKEKB è stato progettato per essere l’acceleratore di elettroni e positroni a più alta luminosità. Nei prossimi 10 anni di attività di SuperKEKB si prevede che saranno generati circa 50 miliardi di eventi di produzione di coppie di mesoni B e anti-B: una quantità 50 volte superiore all'intero campione di dati del progetto KEKB/Belle.

Oltre a Francesco Forti, il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa che partecipa all’esperimento è composto da Giovanni Batignani, Stefano Bettarini, Eugenio Paoloni, Giuliana Rizzo, Giulia Casarosa, Thomas Lueck, Laura Zani, Luigi Corona, Michael De Nuccio, ed opera in stretta collaborazione con l’INFN.



È l’espressione “più potente” di un set di geni a determinare lo sviluppo delle fragole. La scoperta arriva da una ricerca di un team internazionale che ha indentificato per la prima volta i meccanismi genetici che sono che sono alla base dello sviluppo di questo “falso frutto” primaverile. Pubblicato sulla rivista “GigaScience” e coordinato dal centro di ricerca inglese Driscoll’s Genetics Limited, lo studio è stato realizzato dai genetisti e bioinformatici dell’Ateneo pisano del gruppo del professore Andrea Cavallini insieme ai ricercatori delle università di Modena, Milano, Padova e della Fondazione Mach di San Michele all'Adige.

“Abbiamo confrontato il genoma della fragola e quello di una specie vicina, Potentilla micrantha, che non produce i tipici frutti carnosi della specie coltivata – spiega Andrea Cavallini dell’Università di Pisa – questo ci ha consentito di identificare i meccanismi genetici che sono potenzialmente alla base dello sviluppo delle fragole, in realtà un falso frutto, prodotto dall'accrescimento del ricettacolo della infiorescenza”.

 

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Fragola e Potentilla a confronto


La specie Potentilla micrantha, conosciuta anche come “fragola secca” o “cinquefoglia” condivide infatti numerose caratteristiche morfologiche ed ecologiche con la fragola e queste somiglianze hanno spinto i ricercatori a realizzare uno studio di genomica comparata, sequenziando, per la prima volta, il genoma e il trascrittoma di Potentilla.

“Come emerge dalla ricerca, lo sviluppo delle fragole – continua Cavallini – sembra essere legato alla diversa espressione di alcuni specifici geni, che codificano delle proteine del tipo ‘MADS-box’, molto più attivi nella fragola e che sono già noti per essere implicati nello sviluppo del frutto in altre specie”.

In particolare il team dell'Ateneo pisano composto da Elena Barghini, Flavia Mascagni, e Lucia Natali ha contribuito al sequenziamento e all'annotazione del genoma, con particolare riferimento a sequenze molto ripetute.

"I dati genomici e trascrittomici, oltre a costituire una risorsa preziosa per studi futuri sullo sviluppo del frutto nella fragola e in altre Rosaceae - conclude Flavia Mascagni, neo-ricercatrice dell’Università di Pisa - rappresentano uno dei primi genomi di piante superiori ad essere stati sequenziati con la nuova tecnica di sequenziamento ‘Pacific Biosciences’ e fanno luce anche sull'evoluzione delle dimensioni e dell'organizzazione del genoma nella famiglia delle Rosaceae".

 

lopalco cover "Informati e vaccinati. Cosa sono, come funzionano e quanto sono sicuri i vaccini" (Carocci, 2018) è l'ultimo libro appena uscito di Pier Luigi Lopalco, professore ordinario di Igiene al Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa. Lopalco è stato per anni a capo del Programma per le malattie prevenibili da vaccinazione presso lo European Centre for Disease Prevention and Control a Stoccolma.

Anticipiamo qui uno stralcio dalla prefazione.

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Mi capita spesso, prima di una lezione, di essere assalito da qualche dubbio e, nel terrore di non saper rispondere a una eventuale domanda da parte di uno studente particolarmente attento e curioso (e magari anche un po’ rompiscatole), corro a cercare l’informazione su qualche libro di testo. E così avvenne quella mattina.

Avrei dovuto parlare di vaccinazione antipoliomielite e avrei iniziato la lezione dando qualche cenno sulla malattia. Non ricordavo assolutamente, lo ammetto, il periodo di contagiosità di un paziente affetto da quella terribile malattia. Ero sicuro che qualcuno me lo avrebbe chiesto.

Notai con piacere che mi era stata appena consegnata l’ultima edizione di un ottimo testo universitario di malattie infettive. Niente di meglio.

«Sarà la fretta» pensai inizialmente quando, sfogliando i vari capitoli, non riuscivo a individuare quello relativo alla polio. Contravvenendo a una regola basilare della mia disorganizzazione mentale, feci quello che qualunque altra persona di media intelligenza avrebbe fatto fin dal principio: consultai l’indice analitico. Cercai con pazienza: “parotite”, “pertosse”, “rickettsiosi”... nessuna traccia della poliomielite.
Dopo un poco mi arresi. Non era colpa della mia distrazione, né di un refuso dell’indice analitico: in quel libro, dato alle stampe nel 2009, la polio non era nemmeno citata.

L’irritazione per non aver trovato quello che cercavo, a pochi minuti dalla lezione, fu soppiantata dalla brutta sensazione di sentirmi davvero vecchio. I miei studenti, futuri medici, non avrebbero studiato una malattia che aveva invece fatto parte del mio basilare bagaglio di conoscenze.[…]


I temi che mi accingo ad affrontare in questo volume non rappresentano che un piccolissimo campionario della lunga lotta dell’Uomo contro le malattie infettive. Come ogni lotta, anche questa è stata costellata da successi, insuccessi, errori ed equivoci.

Spero che una trattazione ragionata di questi temi contribuisca a dare una lettura spassionata e il più possibile obiettiva di questa lotta combattuta con le armi della scienza, e pertanto ben lungi dall’egida dell’infallibilità; anzi, per definizione, sempre soggetta alla verifica dei fatti e delle evidenze sperimentali. E spero che possa servire a chiarire qualche dubbio sulla reale utilità delle vaccinazioni.

Ah, dimenticavo. Per tornare alla mia lezione, la domanda sulla polio arrivò puntuale dall’immancabile studente precisino. Non senza una punta di sadismo risposi: «Mi dispiace, questo particolare adesso mi sfugge, vada a controllare sul testo di malattie infettive».

Pier Luigi Lopalco

Studiare gli effetti della gravità alterata sui processi biologici, come accade ad esempio agli astronauti quando stanno a lungo nello spazio, e capire come porvi rimedio contrastando l’aumento di produzione di radicali liberi responsabili dell’invecchiamento cellulare. L’Università di Pisa è partner del progetto “PlanOx2” dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), insieme ad un consorzio internazionale di ricerca che comprende l’unità di ricerca di Gianni Ciofani dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), il CNR di Marsiglia e l’Università di Amsterdam.

“Il progetto contribuirà alla comprensione dei meccanismi alla base dello stress ossidativo ed alla possibile prevenzione del danno a cui sono sottoposti gli astronauti durante i viaggi spaziali – spiega Alessandra Salvetti del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’ateneo pisano – ma più in generale lo studio potrebbe avere importanti ricadute in ambito biomedico, poiché si tratta degli stessi meccanismi che contribuiscono all’insorgenza di molte patologie degenerative come la distrofia muscolare”.

 

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Nella foto, da sinistra: Andrea Degl'Innocenti, Alessandra Salvetti, Leonardo Rossi e sullo sfondo l’LDC, la “centrifuga” utilizzata per generareipergravità presso ilCentro Europeo di Ricerca Spaziale e Tecnologica dell’ESA, nei Paesi Bassi.


E proprio in queste settimane Alessandra Salvetti, insieme al collega dell’Università di Pisa Leonardo Rossi e ad Andrea Degl’Innocenti (IIT), si trova al Centro Europeo di Ricerca Spaziale e Tecnologica dell’ESA, a Noordwijk nei Paesi Bassi, per condurre una serie di test in condizioni di microgravità e di ipergravità. Gli esperimenti sono condotti su planarie, vermi di pochi millimetri con un corpo piatto che rappresentano un organismo modello molto studiato dagli scienziati per le loro considerevoli capacità rigenerative.

“In particolare – conclude Alessandra Salvetti – la nostra equipe sta cercando di capire come contrastare l’invecchiamento cellulare utilizzando uno smart material, le nanoparticelle di ceria, cioè ceramiche biocompatibili dall'eccezionale capacità antiossidante ed autorigenerante, in grado di contrastare l'insorgenza di radicali liberi”.

 

 

Poco più grande di 10 km2 e praticamente piatta, con un’altezza massima sul livello del mare di appena 29 metri. Sono queste le misure di Pianosa, una delle isole più caratteristiche dell’Arcipelago Toscano che inaspettatamente, nel sottosuolo, ospita un’importante riserva idrica oggi purtroppo a rischio. Proprio per tenere sotto controllo questa risorsa, in accordo con il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, un team di geologi guidati da Roberto Giannecchini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e da Marco Doveri dell’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR dal 2014 ha avviato una rete di monitoraggio in continuo e svolge regolarmente tre o quattro campagne di campionamento e misurazioni annuali sull’isola.

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Ricercatori a lavoro su un pozzo


Nota sin dall’epoca romana, la falda acquifera di Pianosa ha da sempre dissetato gli abitanti dell’isola, anche più di 1.500 alla fine degli anni ‘80 del Novecento quando il penitenziario, oggi piccola sede distaccata di Porto Azzurro, raggiunse il suo massimo sviluppo. Ma il sovrasfruttamento e la pressione antropica hanno messo a rischio questa risorsa sia in termini di volume, sia per l’ingresso di acqua di mare e di contaminanti nella falda, in particolare nitrati, legati alle attività agro-zootecniche associate al penitenziario.

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Isola di Pianosa



“Pianosa oggi si regge praticamente su un unico pozzo vetusto, il solo superstite della trentina un tempo esistenti - spiega Roberto Giannecchini dell’Ateneo pisano - il nostro obiettivo è quindi quello di studiare il funzionamento di questo particolarissimo sistema acquifero, i suoi meccanismi di ricarica e la sua vulnerabilità rispetto allo sfruttamento e alla contaminazione del mare, grande nemica delle falde sotterranee, specialmente nelle aree insulari”.

Intanto, uno dei primi risultati è stato capire l’origine dell’acqua a Pianosa. Infatti, se da tempo molti ipotizzavano origini lontane (isola d’Elba o addirittura Corsica), i dati scientifici attualmente a disposizione suggeriscono che la risorsa idrica pianosina sia alimentata essenzialmente dalla poca acqua piovana che cade sull’isola e che trova un terreno permeabile per infiltrarsi e immagazzinarsi. Per il 2018 sono previste almeno 4 campagne, ciascuna di durata di circa una settimana.

 

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Alcuni componenti del gruppo di ricerca, da sinistra: Marco Doveri (IGG-CNR PI), Chantal Maglia (laureanda DST-UNIPI), Enrico Calvi (IGG-CNR PI), Sandra Trifirò (IGG-CNR PI), Roberto Giannecchini (DST-UNIPI), Luciano Giannini (IGG-CNR FI). La foto è di Matia Menichini (IGG-CNR PI)


“Dal punto di vista logistico, le campagne di studio a Pianosa sono sempre piuttosto avventurose, non ci sono infatti strutture ricettive specifiche per i ricercatori e anche il servizio marittimo è saltuario – racconta Giannecchini – ma nonostante le difficoltà, Pianosa rappresenta un luogo unico, pieno di fascino, un habitat pressoché incontaminato che fa dell’isola un laboratorio scientifico strategico nel contesto più ampio del Mediterraneo”.

“Per il sostegno alle nostre ricerche – conclude Giannecchini – è infine doveroso menzionare la direttrice Parco Naturale dell’Arcipelago Toscano Franca Zanichelli e il consigliere Alessandro Damiani, geologo elbano, e non ultimi i detenuti e l’Amministrazione della Casa di Reclusione di Porto Azzurro per l’indispensabile supporto logistico”.

 

A Castelnuovo Berardenga, nelle colline senesi, un’equipe di geologi e paleontologi ha rinvenuto un fossile dello squalo Lamna nasus, meglio noto come smeriglio o vitello di mare, il primo mai trovato sul territorio italiano e nell'intera regione mediterranea.

La scoperta dei ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci (GAMPS) è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie e fornisce nuove indizi sull’evoluzione climatica del Mediterraneo.

“Lo smeriglio, un predatore veloce e vorace strettamente imparentato con il più famoso squalo bianco, è oggi molto raro nelle acque del Mar Mediterraneo, e come fossile è principalmente noto da pochi reperti rinvenuti in Belgio e nei Paesi Bassi”, spiega Alberto Collareta dell’Ateneo pisano.

 

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Il denti di Lamna nasus dal Pliocene di Castelnuovo Berardenga conservato presso l'esibizione permanente del “Gruppo AVIS Mineralogia e Paleontologia Scandicci) (Badia a Settimo, Scandicci, FI).



Secondo gli autori dello studio, il fossile di Lamna ritrovato nel senese e risalente al tardo Pliocene (da circa 5,3 a circa 2,6 milioni di anni fa) potrebbe testimoniare una delle prime fasi di raffreddamento del Mediterraneo, che solo poche centinaia di migliaia di anni prima era popolato da molte specie tropicali simili a quelle che oggi abitano le acque Indo-Pacifiche. Il rafforzamento della glaciazione artica avvenuto circa 3 milioni di anni fa avrebbe infatti mutato sensibilmente le acque toscane inducendo sia la scomparsa di specie tropicali sia l’arrivo di altre tipiche di ambienti temperati e freddi, come lo smeriglio, attraverso lo stretto di Gibilterra.

 

Il reperto di Lamna nasus dal Pliocene di Castelnuovo Berardenga conservato presso l'esibizione permanente del “Gruppo AVIS Mineralogia e Paleontologia Scandicci) (Badia a Settimo, Scandicci, FI).


“Durante il Pliocene, buona parte del territorio toscano era sommerso da un mare popolato da una grande varietà di organismi – dicono Simone Casati e Andrea Di Cencio del GAMPS – le centinaia di denti fossili di squali “esotici” rinvenuti negli anni a Castelnuovo Berardenga indicano che l’attuale campagna senese era un ambiente di mare profondo, il cui fondale era caratterizzato da acque fredde, come quelle degli strati più profondi dei moderni oceani”.

Da allora, i profondi mutamenti geologici e climatici intercorsi hanno rimodellato il territorio, rendendolo una “miniera a cielo aperto” ricca di indizi che, se debitamente interpretati, possono svelare le origini dell'ambiente attuale.

“Il riscaldamento globale a cui assistiamo oggi e, più in generale, una pressione antropica solo in parte sostenibile stanno contribuendo a invertire nuovamente la rotta - conclude Alberto Collareta - Pesci tropicali provenienti dall'Oceano Indiano sono sempre più frequentemente pescati nel Mar Mediterraneo, mentre molte popolazioni caratteristiche di questo bacino sono in forte sofferenza. Sono tante dunque le prospettive di ricerca ancora aperte, con le colline toscani che si riconfermano un eccezionale scrigno naturalistico per chi cerca di redigere la storia biologica del bacino mediterraneo”.

 

Un tumore osseo di mille anni fa, il più antico nel suo genere mai rinvenuto, è stato scoperto dall’équipe della divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa coordinata dalla professoressa Valentina Giuffra. Si tratta di un osteoblastoma che ricercatori hanno diagnosticato nel seno frontale del cranio in uno scheletro datato al X-XII secolo e portato alla luce durante gli scavi archeologici condotti nel 2004 presso il grande cimitero medievale della pieve di Pava (Siena).

 

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Sezione istologica dell’osteoblastoma (Blu di Toluidina, 100x)

 

La scoperta, appena pubblicata sulla rivista scientifica internazionale “The Lancet Oncology”, getta nuova luce sull’antichità dei tumori ossei e pone le basi per nuove ricerche nel campo della paleoncologia.
L’individuo, un giovane maschio di 25-35 anni, presentava in corrispondenza dell’osso frontale una rottura post mortale che ha permesso di osservare la presenza di una piccola neoformazione ovalare all’interno del seno frontale destro del cranio. Grazie all’ausilio di moderne tecniche radiologiche ed istologiche, gli studiosi sono riusciti a chiarire che la natura patologica della lesione era proprio un osteoblastoma.

 

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Particolate della lesione ovalare nel seno frontale destro


“L’osteoblastoma è un raro tumore benigno dell'osso che rappresenta attualmente circa il 3,5% di tutti i tumori primitivi benigni dell'osso e l'1% di tutte le neoplasie ossee - afferma il professore Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e coautore della pubblicazione – di solito colpisce prevalentemente i giovani adulti, prediligendo la colonna vertebrale e le ossa lunghe, la localizzazione nel cranio e nei seni paranasali è invece estremamente inconsueta e pochissimi sono i casi noti nella letteratura clinica moderna”.

“E’ stato estremamente sorprendente essere riusciti a trovare testimonianza di questa condizione addirittura nei resti scheletri umani. Ad oggi infatti, il caso medievale di Pava risulta essere la prima attestazione paleopatologica di osteoblastoma del seno frontale, confermando l'esistenza di questo raro tumore osseo benigno a quasi 1000 anni fa” conclude la dottoressa Giulia Riccomi, dottoranda dell’Ateneo pisano e primo autore della pubblicazione.

 

FioriUn foglio di carta e una semplice stampante a getto d’inchiostro: è tutto quello che, in uno scenario futuribile, potrebbe servire per fabbricare dispositivi di elettronica di consumo – come un telefonino o una radio – con il vantaggio di poter avere sistemi “personalizzati”, a basso impatto ambientale, facilmente smaltibili e riciclabili. Parlando con il professor Gianluca Fiori, docente di Elettronica al dipartimento di Ingegneria dell’informazione dell’Università di Pisa, tutto questo appare vicino e realizzabile, in particolare grazie a un progetto di ricerca finanziato dall’Europa con un ERC Consolidator Grant, che nei prossimi 5 anni sarà portato avanti dal suo gruppo.

Lo studio, condotto in collaborazione con l’Università di Manchester, riguarda le applicazioni di materiali bidimensionali, come il grafene, nel campo dell’elettronica per la costruzione di circuiti elettronici contenuti per esempio nei nostri computer e smartphone, e che in futuro potranno essere stampati su supporti flessibili come la carta.

“Grazie alla collaborazione con l’Università di Manchester, insignita del premio Nobel 2010 per le ricerche sul grafene – spiega Fiori – possediamo degli inchiostri ricavati da questo materiale del tutto simili agli inchiostri delle nostre stampanti, ma con proprietà elettroniche eccellenti. Questa tecnologia può aprire la porta a innumerevoli applicazioni, che vanno da etichette intelligenti per l’industria 4.0 a dispositivi biomedicali per l’analisi dei segnali biometrici, a metodi smart anti contraffazione, giusto per citarne alcune”.

Il professor Fiori e il suo gruppo di ricerca stanno dunque lavorando per rendere reale quello che ora, nell’immaginario collettivo, sembra un film di fantascienza: “La nostra è una ricerca di base, ma in quanto scienziati siamo chiamati a “sognare” e ipotizzare scenari futuri in cui i nostri studi trovino un’applicazione concreta nella realtà: i finanziamenti che vengono dall’Europa ci aiutano proprio in questo”.

Intanto il 6 aprile un po’ di Bruxelles si trasferirà a Pisa per una giornata dedicata all’FP9, il Programma Quadro europeo per la Ricerca e l’Innovazione che dal 2021 subentrerà a Horizon 2020. Rappresentanti del mondo della politica, della ricerca e delle imprese saranno chiamati a confrontarsi sul ruolo della ricerca di base per lo sviluppo delle società e delle economie dei Paesi europei. L’incontro, voluto e organizzato dall’Università di Pisa, sarà anche l’occasione per mostrare le eccellenze del sistema toscano della ricerca che, come nel caso di Gianluca Fiori.

Ne hanno parlato: 
Focus
Repubblica Firenze
Askanews 
InToscana.it
Nazione Pisa 
Greenreport
Qui News Pisa

Come si è originata la vita e come si trasmette da cellula madre a cellula figlia? Un nuovo tassello per la comprensione di questi meccanismi arriva da uno studio delle Università di Pisa, Bari e Salento che si è guadagnato la copertina della rivista scientifica “Integrative Biology” della American Chemical Society. Il gruppo di ricerca, coordinato dal professore Roberto Marangoni dell’Ateneo pisano e composto da Alessio Fanti, Leandro Gammuto, Fabio Mavelli e Pasquale Stano, ha simulato in laboratorio i processi di riproduzione grazie a delle “protocellule” che si usano per studiare alcune proprietà delle cellule biologiche vere.

“Tra i tanti problemi che concernono la comprensione di come si sia sviluppata la vita sulla terra, c’è anche il rapporto tra membrane cellulari e contenuto della cellula – racconta Roberto Marangoni - infatti, per assicurare un ambiente chimicamente stabile e governabile, le cellule hanno bisogno di una divisione tra il contenuto interno, l’insieme delle molecole necessarie alla vita, e l’ambiente esterno, e tale divisione è data dalla membrana cellulare”.

 

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Uno dei punti fondamentali su cui si è interrogata la scienza è quindi se sia nato prima il contenuto cellulare o la membrana, in altre parole, una sorta di problema “dell’uovo e della gallina” su scala microscopica. Una possibile soluzione a questo apparente paradosso è venuta circa dieci anni fa, quando gli scienziati hanno osservato il cosiddetto “supercrowding effect”. Si tratta infatti di un fenomeno in base al quale nel processo di formazione delle protocellule di piccolissime dimensioni, la stragrande maggioranza risulta completamente vuota al proprio interno, ma allo stesso tempo se ne trovano alcune (assai rare, ma esistono) che, al contrario, risultano completamente piene, avendo incorporato moltissime molecole. L’esistenza di queste rare protocellule “piene” mette le basi per sciogliere il paradosso della formazione della membrana e del contenuto cellulare: nessuno si forma prima dell’altro perché il meccanismo è simultaneo e si formano insieme, seguendo un processo di organizzazione spontanea.

“A partire da questa scoperta, nel nostro studio ci siamo occupati del passo successivo – spiega Marangoni - cioè abbiamo cercato di capire come queste protocellule ricche di contenuti si comportano durante la riproduzione, un processo che comporta la rottura e la ricostituzione delle membrane e che potrebbe quindi causare la perdita di materiale interno pregiudicando la funzionalità delle protocellule ‘figlie’. La nostra ricerca indica che questo non accade e che la perdita di materiale fra protocellula ‘ricche’ è molto basso”.

“Questo meccanismo insieme al “supercrowding effect” – conclude Maragnoni - rafforza l’idea di una organizzazione spontanea dei primi e rudimentali proto-organismi della storia della vita, il cui punto di forza è l’interazione, certamente complessa e ancora non completamente compresa, tra le membrane e le macromolecole”.



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