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Due spedizioni del dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa sono in partenza per l'Antartide, una per contribuire a definire la storia geologica e ambientale di quel continente e l'altra per raccogliere meteoriti in grado di aiutarci a capire le origini del sistema solare. Entrambe fanno parte della XXXIII Campagna Antartica del Programma Nazionale delle Ricerche finanziata dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca.

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Il primo gruppo, formato dai ricercatori Chiara Montomoli e Stefano Casale, è partito dall'Italia martedì 5 dicembre, con arrivo previsto tre giorni dopo. L’area di studio è situata nel Convoy Range, a sud della base italiana "Mario Zucchelli", e rappresenta il punto di raccordo tra le ricerche geologiche italiane e tedesche nella Terra Vittoria Settentrionale e le ricerche geologiche neozelandesi nella Terra Vittoria Meridionale. In particolare, gli studiosi dell'Ateneo pisano lavoreranno sulle Montagne Transantartiche, che costituiscono un punto nodale per la ricostruzione dell’evoluzione geologica e geodinamica dell’intero continente e sono particolarmente significative anche per la ricostruzione della storia glaciale della Calotta Est Antartica.

I ricercatori si occuperanno del rilevamento geologico-strutturale nel tentativo di comprendere attraverso quali processi geologici l'Antartide abbia acquisito la sua attuale configurazione e di ricostruirne la storia nelle varie ere geologiche. Tra le attività previste durante la campagna, vi è lo studio dei depositi glaciali, al fine di ricostruire le principali tappe dell’evoluzione della Calotta Orientale, l’elemento più rilevante del complesso sistema antartico. La caratterizzazione e la datazione delle principali fasi della storia glaciale del Continente Bianco contribuisce, infatti, a fornire gli elementi necessari alla modellizzazione dei comportamenti futuri in risposta ai profondi cambiamenti ambientali indotti dal riscaldamento del clima. L’attività di ricerca, svolta nell’ambito di collaborazioni internazionali, consentirà di colmare una lacuna nella cartografia geologica di questo settore del Mare di Ross e di fornire nuovi dati rilevanti per l’avanzamento delle conoscenze sulla storia geologica e ambientale del continente Antartico.

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Nella foto Chiara Montomoli e Stefano Casale.

La seconda spedizione, composta dai ricercatori Luigi Folco, Maurizio Gemelli e Matteo Masotta, a cui si aggregherà Jerome Gattacceca, del "Centre de Recherche et d’Enseignement de Géosciences de l’Environnement" di Aix en Provence-Marseille, si muoverà dall'Italia domenica 10 dicembre per rimanere circa due mesi in Antartide a caccia di meteoriti.

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Nella foto, da sinistra: Maurizio Gemelli, Luigi Folco e Matteo Masotta.

Le vaste distese di ghiaccio della calotta polare Antartica, infatti, sono un terreno straordinario per la raccolta di meteoriti, che vengono concentrate dalla dinamica glaciale in particolari aree di ghiaccio blu dette "trappole per meteoriti” dove se ne possono trovare a decine. Le meteoriti sono frammenti di asteroidi, comete e pianeti e lo studio delle loro proprietà chimiche e fisiche permette di esplorare le origini del sistema solare, circa 4.5 miliardi di anni fa e la sua successiva evoluzione. L’Antartide costituisce quindi una sorta di Eldorado per le scienze planetarie.

I tre ricercatori del dipartimento pisano di Scienze della Terra e quello francese istalleranno un campo remoto a Butcher Ridge, al limite tra la calotta e le vette più interne delle Montagne Transantartiche, che servirà da base per le ricerche che verranno condotte a piedi e in skidoo Il supporto sarà fornito dalla base estiva italiana "Mario Zucchelli", 550 km più a nord. Ad attenderli a 80 gradi di latitudine sud ci sarà luce cristallina, temperature medie di -30 gradi e venti di 25 nodi. Il sito del progetto sulle "Meteoriti Antartiche" è raggiungibile all'indirizzo: http://meteoant.dst.unipi.it/index.php.

I due gruppi di ricercatori terranno un diario di viaggio dall'Antartide, con racconti, immagini e video pubblicati sulla pagina facebook "L'Università di Pisa in Antartide".

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Gianluca Fiori, professore associato di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa, è tra i 329 scienziati europei che hanno ottenuto il prestigioso ERC Consolidator Grant, attribuito ogni anno a ricercatori con 7-12 anni di esperienza post dottorato i quali ricevono così sino a 2 milioni di euro di finanziamento sulla base di un elevato curriculum scientifico e di un progetto di ricerca altamente innovativo.

Il progetto presentato riguarda le applicazioni di materiali bidimensionali, come il grafene, nel campo dell’elettronica, per la costruzione di circuiti elettronici contenuti per esempio nei nostri computer e smartphone, e che in futuro potranno essere stampati su supporti flessibili come la carta.

“Grazie alla collaborazione con l’Università di Manchester, insignita del premio Nobel 2010 per le ricerche sul grafene – spiega Fiori – possediamo degli inchiostri ricavati da questo materiale, che sono del tutto simili agli inchiostri delle nostre stampanti, ma con proprietà elettroniche eccellenti. La ricerca finanziata ha lo scopo di utilizzare questa tecnologia per stampare circuiti integrati e transistor. Magari, in un futuro non lontano, potremmo arrivare a stampare da soli il nostro ipad o il nostro smartphone, con una semplice stampante a getto di inchiostro e un foglio di carta. Potremo quindi progettare e stampare dispositivi “personalizzati”, che rispondono alle nostre esigenze specifiche, a basso impatto ambientale e facilmente smaltibili”.

 

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Gianluca Fiori, professore associato di elettronica al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione

Responsabili di questo scenario futuristico sono le proprietà degli inchiostri composti da materiali bidimensionali (sottili come un singolo strato atomico), a base d’acqua, biocompatibili e adatti a una tecnologia a basso costo come la stampa a getto di inchiostro. Questa tecnologia può aprire la porta a innumerevoli applicazioni, che vanno da etichette intelligenti per l’industria 4.0 a dispositivi biomedicali per l’analisi dei segnali biometrici, a metodi smart anti contraffazione.

“Al momento – aggiunge Fiori – il livello di integrazione dei circuiti bidimensionali a cui possiamo arrivare è simile a quello che la tecnologia basata sul silicio (tuttora utilizzata per costruire i nostri processori) aveva negli anni settanta, quando la potenza di calcolo dei computer era immensamente inferiore all’attuale. Ma poi le cose sono progredite in modo sorprendentemente veloce: il primo processore, realizzato agli inizi degli anni 70, conteneva solo 2000 transistor: ora i chip ora ne contengono miliardi".

Nei prossimi 5 anni, il professor Fiori e il suo gruppo di ricerca lavoreranno per rendere reale quello che ora, nell’immaginario collettivo, sembra un film di fantascienza.

Circa 3.000 sono stati i progetti presentati per ottenere il riconoscimento. I 329 selezionati riceveranno un finanziamento complessivo di 630 milioni di euro. 33 gli Italiani, di cui però solo 14 condurranno la propria ricerca in Università e strutture italiane. Oltre all’Università di Pisa, con il Grant di Fiori, nella lista dei premiati figurano l’Università di Milano, l’Università di Padova, la Sissa di Trieste, il Politecnico di Torino, la Sapienza di Roma, l’Inaf, l’Infn, l’Università Sacro Cuore, il Laboratorio Europeo di Spettroscopie, l’Università di Torino e il CNR.

Approfondire la conoscenza delle proprietà nutritive e farmaceutiche del baobab per contribuire alla lotta contro la malnutrizione in Africa, favorendo anche la sua produzione e commercializzazione fra la popolazione locale. Con questi obiettivi ha ufficialmente preso il via a novembre il progetto “Il frutto del Baobab come fonte di sostanze nutritive e di molecole bioattive” finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito degli interventi di cooperazione internazionale. Il progetto, che durerà un anno, è coordinato dalla professoressa Alessandra Braca e dalla dottoressa Marinella De Leo del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, in collaborazione con l’organizzazione non governativa Aidemet e il Dipartimento di medicina tradizionale di Bamako, la capitale del Mali.

 

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Da sinistra la professoressa Alessandra Braca e la dottoressa Marinella De Leo, il dottor Sergio Giani di Aidemet ONG e la professoressa Rokia Sanogo del DMT, Bamako, Mali


“Il Baobab è un alimento base della dieta quotidiana in molte zone dell’Africa centrale e occidentale, nelle zone rurali del Mali ad esempio è consumato sia in forma solida che come bevanda - spiega Alessandra Braca - e tuttavia le sue proprietà nutritive, e potenzialmente anche farmaceutiche, sono ancora poco conosciute”.

Nell’ottica di incrementare la conoscenza scientifica sul Baobab, e contribuire così alla lotta contro la malnutrizione, il progetto prevede quindi l’indagine chimica della polpa del frutto per definire il suo valore nutrizionale e le sue potenzialità come fonte di sostanze biologicamente attive a scopo medicinale.

“Nei nostri laboratori effettueremo le analisi del frutto per l’identificazione dei polifenoli ed eventuali altre molecole bioattive – aggiunge la professoressa Braca – quello che sappiamo finora è che la polpa del baobab è particolarmente ricca di fibre, sali minerali, amminoacidi, vitamina C, mentre ha un basso tenore di zuccheri, tutte proprietà che lo rendono un alimento ad alto potere nutrizionale”.

Da parte loro i partner del Mali si occuperanno principalmente del controllo di qualità di frutti e della formulazione di prodotti a base di baobab. Un altro ramo di intervento del progetto sarà infatti quello di cercare di promuovere la produzione del baobab, la sua trasformazione ed il commercio fra le popolazioni locali al fine di valorizzare le risorse del luogo e di favorire l’educazione a un regime alimentare sano e sicuro.


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L'albero del Baobab, il frutto e il logo del progetto



 

Cosa ci rende umani? Un team internazionale di ricercatori ha scoperto nella corteccia cerebrale dell’uomo un particolare tipo di neuroni, gli interneuroni dopaminergici, che sono invece assenti in quella delle grandi scimmie, i nostri parenti più prossimi esistenti. Lo studio, durato sei anni, è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Science» e come unico italiano fra gli autori c’è Marco Onorati, ricercatore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e “visiting scientist” alla Yale University, nel laboratorio del professore Nenad Sestan.

“Il nostro cervello possiede capacità cognitive che lo rendono unico – spiega Onorati – e l’identificazione nella corteccia cerebrale umana degli interneuroni dopaminergici, non presenti in quella delle grandi scimmie africane come scimpanzé, bonobo e gorilla, costituisce un passo importante nella comprensione di cosa ci rende umani”.

 

Neurone

 

L’analisi comparativa del profilo genico del cervello umano e di quello degli altri primati ha dunque rivelato la presenza di alcuni geni specificamente arricchiti nel nostro cervello fra cui quelli per la sintesi della dopamina. I neuroni dopaminergici si trovano infatti nella sostanza nera del mesencefalo sia dell’uomo che degli altri primati, ma solo nell’uomo sono presenti anche nella corteccia cerebrale. E proprio capire la loro funzionalità è stato il compito del ricercatore dell’Ateneo pisano che li ha generati in laboratorio grazie all’utilizzo di cellule staminali pluripotenti.

“Per quanto riguarda i numeri, questi interneuroni sono rari, meno dell’1% – conclude Onorati – e tuttavia, essendo coinvolti nella sintesi della dopamina, possono regolare funzioni cognitive superiori tipiche dell’uomo, come la memoria e il comportamento, oltre ad essere coinvolti in malattie come il Parkinson o alcune forme di demenza, per le quali questo studio potrà in futuro fornire nuove prospettive”.

Qui i link all’articolo su «Science» di cui sono primi autori i ricercatori Andre M. M. Sousa e Ying Zhu della Yale University e al press release della Yale University.

Dal riciclo degli scarti della produzione agroalimentare, realizzati innovativi bio rivestimenti edibili per proteggere più a lungo il valore nutritivo della frutta senza alterarne il gusto. La novità arriva dall’Università di Pisa dove il gruppo di ricerca coordinato della professoressa Annamaria Ranieri del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali ha condotto una sperimentazione i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su due riviste scientifiche, il “Journal of Food Processing and Preservation” e il “LWT – Food, Science and Technology”.

Docente di Chimica agraria, Annamaria Ranieri ha indirizzato da tempo le sue ricerche sull’utilizzo di biopolimeri naturali ed edibili per mantenere le proprietà nutraceutiche della frutta durante la conservazione.

“Come comunità scientifica ci poniamo il problema della gestione virtuosa e sostenibile degli scarti della produzione agroalimentare – dice la professoressa dell’Ateneo pisano - dall’altra parte l’obiettivo è di dare ai consumatori prodotti che, dalla raccolta alla tavola, riescano a mantenere l’aspetto e le proprietà organolettiche e salutistiche”.

 

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In alto a sinistra Mela Fuji senza rivestimento, a destra rivestita con gelatina di collagene, in basso a sinistra Pomodoro Sir Elyan senza rivestimento, a destra rivestito con chitosano

 

In particolare, uno dei due studi ha riguardato le mele Fuji: per conservarle i ricercatori hanno utilizzato come rivestimento la gelatina, un polimero a base di collagene ottenuto dalla lavorazione di tessuti connettivi e largamente utilizzato per i rivestimenti di capsule nell’industria farmaceutica. Il secondo studio ha riguardato invece il frutto del pomodoro che è stato rivestito con il chitosano, un polimero derivante dalla chitina, una sostanza presente negli esoscheletri dei crostacei e nelle pareti cellulari dei funghi.

I due rivestimenti, che possono essere eliminati lavando i frutti prima di cibarsene hanno rallentato di 3 giorni la maturazione, come evidenziato dal posticipato picco di accumulo di importanti composti nutraceutici, come carotenoidi, acidi fenolici e flavonoidi. Nella mela, poi l’efficacia dell’impiego del rivestimento edibile nel rallentare la maturazione è testimoniato dalla minore concentrazione di alcuni aromi presenti nel frutto maturo, a fronte del mantenimento dei principali composti aromatici che caratterizzano il frutto

“La maggiore conservabilità nel tempo – ha quindi concluso la professoressa Ranieri – potrebbe inoltre contribuire ad evitare lo spreco alimentare in differenti punti della filiera dalla raccolta al consumo”.

pensiero_computazionale_cover.png"Il pensiero computazionale. Dagli algoritmi al coding" (il Mulino, 2017) è il titolo del volume di cui sono autori Paolo Ferragina, professore ordinario di Informatica all’Università di Pisa, e Fabrizio Luccio, professore emerito di Informatica sempre dell’Università di Pisa. Il libro sarà presentato al Pisa Book Festival venerdì 10 novembre alle 15

Pubblichiamo di seguito uno stralcio dalla prefazione, e buona lettura !

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Scopo principale di questo testo è introdurre i lettori alla comprensione e progettazione di algoritmi che risolvono problemi provenienti da diversi campi della scienza e della tecnologia e che hanno un’importanza rilevante nel mondo di oggi. La presentazione è accessibile a chiunque abbia cognizioni matematiche elementari ed è resa più semplice che si possa, senza rinunciare a un rigore indispensabile per trasformare idee generali in algoritmi eseguibili senza compromessi. Nel corso della trattazione sono comunque richiamate, quando necessario, nozioni aritmetiche particolarmente rilevanti per la costruzione di questi algoritmi.

Perché il testo sia fruibile nel miglior modo, esso è diviso in capitoli sostanzialmente indipendenti che possono essere letti separatamente lasciando al lettore la libertà di scegliere gli argomenti che preferisce. Solo in quattro casi argomenti di corredo, eleganti e utili ma più impegnativi degli altri, sono stati riportati in paragrafi contrassegnati da asterisco a indicare che possono essere tralasciati senza intaccare la comprensione del resto.

Inoltre, i lettori interessati a eseguire su un calcolatore gli algoritmi descritti nel testo possono, anche se non conoscono la «programmazione», esaminarne il funzionamento e magari cimentarsi con la costruzione di programmi propri attraverso un sito Web creato al proposito e di facilissima accessibilità, che contiene la realizzazione in linguaggio Python di questi algoritmi e fornisce ogni mezzo necessario alla loro esecuzione e alla eventuale costruzione di nuovi esempi.

 

Il ghiaccio marino o banchisa di ghiaccio è un elemento fondamentale del sistema climatico e il suo ciclo stagionale influenza la dinamica globale del clima a causa della sua interazione con l’albedo planetario, la circolazione atmosferica e oceanica oltre a essere un essenziale componente dell’ecosistema marino polare. I meccanismi che guidano la variabilità del ghiaccio marino a causa delle forzanti ambientali naturali e antropiche sono ancora poco compresi. La ricerca pubblicata sulla rivista “Nature Communications” (DOI 10.1038/s41467-017-01455-x), dal titolo “Holocene sea ice variability driven by wind and polynya efficiency in the Ross Sea”, ha spiegato per la prima volta i processi ambientali che hanno guidato la variabilità del ghiaccio marino e la presenza dei pinguini e degli elefanti marini durante gli ultimi 10 mila anni nel Mare di Ross in Antartide.

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Fotografia dall’elicottero della Baia Terra Nova (Mare di Ross, Antartide) durante un evento di vento catabatico con la neo-formazione di ghiaccio marino (Foto di Massimo Frezzotti ENEA-PNRA). 

Lo studio è stato condotto da ricercatori italiani del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide in collaborazione con colleghi francesi, nell’ambito dei progetti internazionali HOLOCLIP e TALDICE e di un dottorato di ricerca svolto in collaborazione tra le università di Trieste e Siena dalla dottoressa Karin Mezgec.

“Il nostro studio – spiega Massimo Frezzotti ricercatore dell’ENEA – ha messo in evidenza come i venti che spirano in Antartide abbiano un ruolo fondamentale, analogo (se non addirittura superiore) a quello delle temperature e delle precipitazioni, nel guidare il clima e nel condizionare gli ecosistemi polari. I modelli climatici devono essere in grado di riprodurre la forza e la persistenza dei venti negli ultimi millenni per simulare i cambiamenti climatici in Antartide indotti dall’utilizzo dei combustibili fossili”.

“Le variazioni di estensione del ghiaccio marino nel passato si possono ricostruire per mezzo di indicatori climatici, denominati proxy, presenti negli archivi naturali polari – spiega Barbara Stenni, paleoclimatologa e docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – Questi sono rappresentati sia dalle carote di ghiaccio sia da quelle di sedimento marino raccolte nelle vicinanze del Mare di Ross”.

“La variabilità dell’estensione e della persistenza del ghiaccio marino ha condizionato nel tempo l’evoluzione delle aree costiere e l’accessibilità alle spiagge, offrendo agli elefanti marini e ai pinguini di Adelia diverse opportunità di colonizzare le coste del Mare di Ross, condizionandone anche la dieta, come testimoniato dal ritrovamento di numerose colonie abbandonate che conservano la stratigrafia delle diverse fasi di occupazione”, aggiungono Carlo Baroni e Maria Cristina Salvatore, docenti del dipartimento Scienze della Terra dell’Università di Pisa e collaboratori del CNR-IGG di Pisa.

“Per la prima volta è stato creato un legame di conoscenza fra i dati atmosferici, le carote di ghiaccio e le carote dei sedimenti marini. Grazie alle diatomee, alghe silicee che dominano nei freddi mari antartici, si è potuto capire che l’ambiente marino, dalla colonna d’acqua ai sottostanti sedimenti, ha risposto alle variazioni dell’estensione dei ghiacci ed in ultima analisi alle variazioni climatiche negli ultimi 10 mila anni. La presenza di alcune specie caratteristiche ha evidenziato la grande variabilità climatica di questa finestra temporale così vicina al nostro mondo attuale”, concludono Ester Colizza, sedimentologa, e Romana Melis, micropaleontologa del dipartimento di Matematica e Geoscienze dell’Università di Trieste.

Mettere in sicurezza i ponti stradali e fornire una soluzione innovativa ed ecocompatibile per il loro adeguamento strutturale. È questo l’obiettivo di SUREBridge, un progetto europeo finanziato con circa 875mila euro, avviato nell’ottobre 2015 e con conclusione prevista nel marzo 2018. Al progetto partecipano il Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa, la Chalmers University of Technology di Göteborg in Svezia e, come partner aziendali, la FiberCore Europe di Rotterdam e la AICE Consulting di San Giuliano Terme (Pisa).

“L’adeguamento strutturale dei ponti stradali esistenti è un problema di fondamentale importanza per la sicurezza pubblica, come dimostrato anche da recenti fatti di cronaca riguardanti crolli di viadotti autostradali – spiega il professore Paolo Sebastiano Valvo dell’Ateneo pisano – Non meno importante è la necessità di trovare una soluzione che sia non solo efficace, ma anche sostenibile da un punto di vista ambientale, tutti obiettivi che intendiamo perseguire con il nostro progetto”.

 

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Plenary meeting del progetto con tutti i partner coinvolti

SUREBridge rappresenta infatti una valida alternativa agli interventi di recupero tradizionali che di solito prevedono lunghe opere di demolizione e ricostruzione con disagi per gli automobilisti, costi elevati, ingenti quantità di scarti di lavorazione e inquinamento acustico e ambientale. La tecnica proposta da SUREBridge sfrutta le elevate prestazioni dei materiali compositi fibro-rinforzati per ridurre al minimo le demolizioni e velocizzare le operazioni di cantiere. Più in dettaglio, la tecnica consiste nell’applicazione di pannelli di fibra di vetro all’impalcato esistente, cioè alle strutture di sostegno del piano stradale, e di laminati di fibra di carbonio nella parte inferiore del ponte.

“Questo tipo di intervento consente, inoltre, di allargare la sede stradale dove necessario, ad esempio aggiungendo marciapiedi e piste ciclabili – aggiunge l’ingegnere Erika Davini collaboratrice del progetto nel team dell’Università di Pisa – Per fare una prima verifica sulle potenzialità della soluzione proposta, abbiamo selezionato come caso studio un ponte a San Miniato, in provincia di Pisa, che abbiamo sottoposto ad analisi strutturale per stabilirne la capacità portante attuale e formulare una proposta di ampliamento e rinforzo”.

Oltre all’analisi del ponte caso studio, i ricercatori dell’Ateneo pisano hanno simulato, mediante complessi modelli agli elementi finiti, il comportamento di travi prototipo da testare in laboratorio per dimostrare l’efficacia della tecnica proposta. Inoltre, è stato sviluppato un apposito software per consentire agli ingegneri professionisti di valutare rapidamente la capacità portante dei ponti rinforzati.

Lo scorso settembre, l’Università di Pisa ha ospitato un incontro plenario di tutti i partner coinvolti nel progetto. Nell’occasione, i primi risultati della ricerca sono stati presentati nell’ambito di un seminario pubblico intitolato “Un utilizzo innovativo dei materiali compositi per il recupero sostenibile dei ponti stradali esistenti”, svoltosi presso la Scuola di Ingegneria.

 

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Qui di seguito un dettagliato resoconto del seminario.

SEMINARIO “IL PROGETTO EUROPEO SUREBRIDGE – Un utilizzo innovativo dei materiali compositi per il recupero sostenibile dei ponti stradali esistenti” UNIVERSITÀ DI PISA – SCUOLA DI INGEGNERIA

Venerdì 22 settembre 2017 presso la Scuola di Ingegneria dell’Università di Pisa ha avuto luogo un seminario pubblico sul progetto di ricerca europeo SUREBridge. L’obiettivo della giornata è stato quello di introdurre il progetto a professionisti e studenti italiani, che in particolare lavorano e studiano in Toscana. Circa 70 persone hanno partecipato al seminario, inclusi 12 membri del Consorzio. Il pubblico era composto per metà da ingegneri professionisti, rappresentanti di amministrazioni locali ed enti pubblici (ANAS, RFI, ecc.) e per l’altra metà da studenti, titolari di borse di studio e dottorandi delle Università di Pisa e Firenze.

Il seminario è stato aperto dal Preside della Scuola di Ingegneria Prof. Alberto Landi e dal Direttore del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale Prof. Leonardo Tognotti, che hanno dato il benvenuto ai partecipanti ed evidenziato la rilevanza dei progetti di ricerca internazionali, in particolare inerenti il tema della sostenibilità.

Il Prof. Reza Haghani, coordinatore del consorzio, ha presentato il progetto SUREBridge, discutendo la necessità di una soluzione innovativa, sostenibile ed efficace per la ristrutturazione dei ponti esistenti, al fine di affrontare il crescente aumento della domanda di traffico in tutta Europa. Sono stati presentati i vantaggi dati dall’utilizzo dei materiali compositi fibro-rinforzati (FRP), tra cui durabilità, elevate proprietà meccaniche, e basso peso specifico. Inoltre, è stata illustrata una nuova tecnica di pre-sollecitazione per laminati in materiale composito fibro-rinforzato con fibra di carbonio (CFRP) sviluppata presso la Chalmers University of Technology. Questo metodo, che ritarda la delaminazione del CFRP dal supporto di calcestruzzo, ha un ruolo chiave all’interno della tecnica SUREBridge, in quanto consente un migliore sfruttamento del materiale rispetto all’applicazione di laminati non pre-sollecitati.

La panoramica generale sul progetto SUREBridge è stata completata dal Dott. Martijn Veltkamp, il quale ha introdotto InfraCore Inside®, un innovativo pannello sandwich realizzato in materiale composito fibro-rinforzato con fibra di vetro (GFRP), prodotto da FiberCore Europe. L’attenzione è stata posta sulla tecnica utilizzata per la produzione di tali pannelli, brevettata da FiberCore, che consente di evitare le problematiche di delaminazione che di solito affliggono i pannelli sandwich di GFRP sottoposti a elevati carichi concentrati, come quelli prodotti dai veicoli stradali. Successivamente, ha illustrato diversi esempi di ponti stradali e pedonali realizzati con elementi strutturali di GFRP.

I risultati sperimentali dei test di laboratorio, eseguiti per studiare il collegamento FRP-calcestruzzo e FRP-FRP, nonché di test su travi in vera grandezza, sono stati presentati dal Dott. Jincheng Yang, della Chalmers University of Technology. Il vantaggio dell’utilizzo di laminati pre-sollecitati è stato dimostrato con prove di flessione su quattro punti su travi prototipo a sezione trasversale rettangolare ed a T. Queste ultime sono state appositamente progettate per dimostrare le elevate proprietà di rinforzo e l’efficacia della tecnica SUREBridge.

Le previsioni teoriche sul comportamento di tali travi prototipo sono state effettuate presso l’Università di Pisa prima dell’esecuzione dei test di laboratorio. Il Prof. Paolo S. Valvo, del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa, ha illustrato la tecnica di modellazione agli elementi finiti utilizzata per lo sviluppo di analisi non lineari sulle travi prototipo, al fine di ottenere la curva di capacità e il carico di rottura. Un ottimo accordo è stato trovato tra le previsioni teoriche ed i risultati sperimentali.

Tuttavia, eseguire analisi non lineari per ciascuna sezione trasversale di un ponte in alcuni casi può essere oneroso, in particolare per valutazioni preliminari sulla fattibilità della tecnica di rinforzo scelta. Pertanto, all’interno del progetto SUREBridge è stato sviluppato anche un apposito software per una valutazione rapida della capacità resistente di una trave da ponte rinforzata. L’efficacia del software è stata dimostrata per confronto sia con i risultati sperimentali sia con le analisi agli elementi finiti. L’Ing. Cristiano Alocci, del team di lavoro dell’Università di Pisa, ha presentato le ipotesi teoriche su cui si basa il software e le sue varie caratteristiche, tra cui la possibilità di scegliere il tipo di sezione (rettangolare, multi-rettangolare, a T) e di rinforzo (acciaio pre-teso e non, laminati pre-tesi di CFRP, pannelli di GFRP).

Per dimostrare l’efficacia della tecnica SUREBridge è stato selezionato come caso studio un ponte esistente, situato a San Miniato (Pisa). L’Ing. Fabio Ricci, della società di ingegneria pisana AICE Consulting Srl, partner del progetto, ha illustrato l’analisi strutturale del ponte di San Miniato. In particolare, sono state trattate la campagna di indagini diagnostiche e le analisi agli elementi finiti eseguite per definire la capacità portante attuale del ponte, nonché la proposta di ampliamento e rafforzamento. Tali analisi hanno mostrato l’efficacia della tecnica SUREBridge e il vantaggio dell’utilizzo combinato di laminati di CFRP pre-sollecitati e di pannelli di GFRP.

La giornata si è conclusa con una discussione sul concetto di robustezza e sul problema della manutenzione di edifici e ponti, alla luce delle attuali e delle future prescrizioni degli Eurocodici. L’intervento è stato tenuto dal Prof. Pietro Croce, responsabile del corso di Teoria e Progetto dei Ponti presso l’Università di Pisa e coordinatore dello Horizontal Group “Bridges” (HGB) del CEN Technical Committee 250 per gli Eurocodici strutturali.

Due domus romane costruite nel I secolo a.C. sono venute alla luce a Luni nel corso di una campagna di scavi diretta da Simonetta Menchelli, docente di Topografia antica ed Archeologia subacquea dell’Università di Pisa. Le ricerche rientrano nel “Progetto Luni, la città della Luna”, che ha l’obiettivo di ricostruire i paesaggi urbani e territoriali della città, fondata come colonia romana nel 177 a.C. e ancora attiva, dal punto di vista e strategico ed economico, sino all’Alto Medioevo.

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“La domus meridionale aveva le pareti affrescate, come documentano numerosi frammenti di intonaco rosso e alcuni ambienti pavimentati con mosaici geometrici e vegetali a tralci di vite – spiega Simonetta Menchelli – quella settentrionale ha subito profonde ristrutturazioni nel IV e V secolo, la costruzione poi di una grande vasca evidenzia con tutta probabilità che nella casa venne installata una fullonica, cioè un impianto per la lavorazione e lavaggio dei tessuti”.

“Entrambi gli edifici – continua la professoressa dell’Ateneo pisano – sino a quando non furono abbandonati, fra il VII e l’inizio VIII secolo d.C., furono al centro di numerosi scambi e ricevettero merci di importazione mediterranea come vasellame e vino, olio e salse di pesce da varie regioni italiche, dalla Gallia, dalla Penisola iberica, dall’Africa settentrionale, dall’Asia minore, dalla Siria e dalla Palestina”.

È dal 2014 che il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa effettua scavi e ricerche a Luni nel quartiere di Porta Marina, vicino al porto antico. Le attività, coordinate sul campo dal dottor Paolo Sangriso, durano tre settimane l’anno e vi partecipano oltre venti studenti dell’Università di Pisa e anche ventiquattro allievi dell’Istituto Parentucelli Arzèlà di Sarzana e del Liceo Costa di La Spezia nell’ambito di un progetto alternanza-scuola lavoro.

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Le attività sono frutto di una sinergia fra l’Ateneo pisano, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio (dott.ssa Neva Chiarenza), il Sistema museale di Luni (dott.sse Marcella Mancusi e Antonella Traverso) e il Comune di Luni-Ortonovo. Il carattere interdisciplinare e innovativo dell’iniziativa è assicurato dalla partecipazione del professore Adriano Ribolini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa per gli aspetti geomorfologici ed un programma di indagini georadar, dal professore Vincenzo Palleschi del CNR Pisa per il telerilevamento anche mediante drone e restituzioni 3D degli edifici, dal dottor Claudio Capelli dell’Università di Genova per le analisi archeometriche dei reperti.

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Secondo il report sulla qualità dell’aria presentato a settembre, e realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile con Enea e Ferrovie, l’Italia guida la classifica europea dei morti per inquinamento dell’aria con oltre 90.000 morti premature. Si tratta di 1500 decessi per milione di abitanti, rispetto ai 1100 in Germania, agli 800 della Francia e della Gran Bretagna, e ai 600 della Spagna. In Italia la situazione è maggiormente critica nella Pianura Padana, come evidenzia l’allarme rosso lanciato in questi giorni al Nord Italia, ma senza dimenticare la situazione a Firenze, Napoli e Potenza.

Dall’Università di Pisa arriva MonIQA, un sistema che mette a disposizione dati aggiornati giornalmente sulla qualità dell’aria in tutto il paese. Il sistema è stato sviluppato dal dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Ateneo pisano e dal Laboratorio Nazionale Smart Cities del CINI ed è stato presentato al Festival Pisa Innova Salute. MonIQA, consultabile dal link http://moniqa.dii.unipi.it e scaricabile come app per Android, cattura i dati emessi separatamente dalle Agenzie Regionali per la Protezione dell'Ambiente (ARPA) e li unisce in un’unica mappa intuitiva, che assegna cinque colori a cinque gradazioni diverse di qualità dell’aria.

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“Il colore – spiega Giuseppe Anastasi, direttore del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Laboratorio Nazionale Smart Cities del CINI – è associato alla concentrazione nell’aria di alcune sostanze come particolato atmosferico, biossido di azoto, monossido di azoto, ozono, monossido di carbonio, biossido di zolfo e benzene. La concentrazione di queste sostanze viene paragonata con i limiti imposti dalla legge, e assegnato un colore ad ogni parte del territorio nazionale monitorato”.

Fino ad ora, la pubblicazione dei dati sulla qualità dell’aria era gestita in modo separato dalle ARPA dislocate sul territorio nazionale e i dati erano resi disponibili sui singoli siti web delle ARPA. Non era quindi possibile un confronto immediato tra le varie parti del territorio nazionale. “Grazie a MonIQA – prosegue Anastasi - sarà possibile avere una visione generale sulla qualità dell’aria nel nostro paese, con la conseguenza positiva di incentivare le aree a maggior concentrazione di sostanze pericolose per la salute ad avviare pratiche più ecologicamente sostenibili. Uno studio di Legambiente dimostra per esempio che riducendo del 10% i livelli di particolato atmosferico potremmo arrivare ad avere anche 10.000 morti in meno”.

Qui sotto Francesca Righetti, dottoranda del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, che ha presentato MoniQA al Festival Pisa Innova Salute.
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