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Come si è originata la vita e come si trasmette da cellula madre a cellula figlia? Un nuovo tassello per la comprensione di questi meccanismi arriva da uno studio delle Università di Pisa, Bari e Salento che si è guadagnato la copertina della rivista scientifica “Integrative Biology” della American Chemical Society. Il gruppo di ricerca, coordinato dal professore Roberto Marangoni dell’Ateneo pisano e composto da Alessio Fanti, Leandro Gammuto, Fabio Mavelli e Pasquale Stano, ha simulato in laboratorio i processi di riproduzione grazie a delle “protocellule” che si usano per studiare alcune proprietà delle cellule biologiche vere.

“Tra i tanti problemi che concernono la comprensione di come si sia sviluppata la vita sulla terra, c’è anche il rapporto tra membrane cellulari e contenuto della cellula – racconta Roberto Marangoni - infatti, per assicurare un ambiente chimicamente stabile e governabile, le cellule hanno bisogno di una divisione tra il contenuto interno, l’insieme delle molecole necessarie alla vita, e l’ambiente esterno, e tale divisione è data dalla membrana cellulare”.

 

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Uno dei punti fondamentali su cui si è interrogata la scienza è quindi se sia nato prima il contenuto cellulare o la membrana, in altre parole, una sorta di problema “dell’uovo e della gallina” su scala microscopica. Una possibile soluzione a questo apparente paradosso è venuta circa dieci anni fa, quando gli scienziati hanno osservato il cosiddetto “supercrowding effect”. Si tratta infatti di un fenomeno in base al quale nel processo di formazione delle protocellule di piccolissime dimensioni, la stragrande maggioranza risulta completamente vuota al proprio interno, ma allo stesso tempo se ne trovano alcune (assai rare, ma esistono) che, al contrario, risultano completamente piene, avendo incorporato moltissime molecole. L’esistenza di queste rare protocellule “piene” mette le basi per sciogliere il paradosso della formazione della membrana e del contenuto cellulare: nessuno si forma prima dell’altro perché il meccanismo è simultaneo e si formano insieme, seguendo un processo di organizzazione spontanea.

“A partire da questa scoperta, nel nostro studio ci siamo occupati del passo successivo – spiega Marangoni - cioè abbiamo cercato di capire come queste protocellule ricche di contenuti si comportano durante la riproduzione, un processo che comporta la rottura e la ricostituzione delle membrane e che potrebbe quindi causare la perdita di materiale interno pregiudicando la funzionalità delle protocellule ‘figlie’. La nostra ricerca indica che questo non accade e che la perdita di materiale fra protocellula ‘ricche’ è molto basso”.

“Questo meccanismo insieme al “supercrowding effect” – conclude Maragnoni - rafforza l’idea di una organizzazione spontanea dei primi e rudimentali proto-organismi della storia della vita, il cui punto di forza è l’interazione, certamente complessa e ancora non completamente compresa, tra le membrane e le macromolecole”.



Dimmi come giochi e ti dirò chi sei e, soprattutto, come stai con gli altri. Il gioco è infatti una cartina di tornasole fondamentale per comprendere la qualità delle relazioni che legano gli individui fra loro. A svelare i risvolti sociali dei comportamenti ludici arriva una nuova ricerca di un team di etologi delle Università di Pisa e Torino appena pubblicata sulla rivista PlosOne.

Giada Cordoni, Ivan Norscia, Maria Bobbio ed Elisabetta Palagi hanno studiato come giocano scimpanzé e gorilla, due specie che condividono con noi il 98-99% del DNA e che rappresentano un ottimo modello per capire qualcosa di più anche sull’evoluzione del nostro comportamento. La fase sperimentale del lavoro si è svolta in Francia, nello ZooParc de Beauval a St. Aignan sur Cher, dove i ricercatori per tre mesi hanno osservato le colonie di 15 scimpanzé e 11 gorilla e stilando dei report giornalieri.

 

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Da sinistra Giada Cordoni, Ivan Norscia, ed Elisabetta Palagi


“Abbiamo messo in relazione il gioco con la propensione a costruire rapporti attraverso comportamenti di affiliazione e supporto – racconta Elisabetta Palagi del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa - quello che è emerso è che gorilla e scimpanzé sono profondamente diversi per l’organizzazione sociale e il modo di creare amicizie e alleanze”.

Da un lato c’è quindi la società degli scimpanzé, unita e coesa, dove i soggetti hanno molti contatti affiliativi come ad esempio la pulizia reciproca (il cosiddetto “grooming”). Questo si rispecchia in sessioni di gioco allargate che coinvolgono molti membri del gruppo, giovani e adulti, e sebbene ci possano essere momenti concitati il gioco raramente sfocia in situazioni di vero scontro. La società dei gorilla invece è organizzata ad harem: le femmine stanno semplicemente vicine al maschio, ma senza mostrare particolari interazioni sociali. In questo caso a giocare sono soltanto i giovani gorilla mentre gli adulti non lo fanno praticamente mai. Nonostante poi le sessioni ludiche nei gorilla siano molto caute ed equilibrate, è molto più probabile che il gioco di lotta si trasformi in un vero e proprio conflitto aperto.


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 Una sequenza di gioco fra gorilla


“Il gioco è un comportamento attraverso cui si costruiscono legami sociali che possono durare nel tempo non saper giocare di fatto ostacola la formazione di relazioni positive e la capacità di mantenerle – conclude Elisabetta Palagi – Nell’uomo, unendo l’approccio etologico-naturalistico a quello psicologico, sarebbe interessante capire se chi è più competente nel gioco da bambino o ha semplicemente avuto più opportunità di giocare è anche un adulto socialmente più competente ed integrato”.




 

Dopo un lavoro durato quasi dieci anni è stato appena pubblicato sulla rivista internazionale “Plant Biosystems” l’elenco aggiornato delle piante aliene (o esotiche) che si sono diffuse spontaneamente in Italia. Si è trattato di una ricerca corale realizzata grazie alla collaborazione di 51 ricercatori italiani e stranieri e coordinata da un gruppo di studiosi fra cui Lorenzo Peruzzi, professore di Botanica sistematica dell’Università di Pisa.

A fare da contraltare alle 8195 specie e sottospecie autoctone, vi sono 1597 specie aliene. Anche relativamente a questa biodiversità 'negativa', l'Italia si colloca purtroppo tra le nazioni con i maggiori numeri in Europa. Tra queste specie aliene, 221 risultano invasive su scala nazionale, con 14 specie incluse nella 'lista nera' della Commissione Europea (regolamento EU 1143/2014 e suoi aggiornamenti periodici), che elenca una serie di piante e animali esotici, la cui diffusione in Europa va assolutamente tenuta sotto controllo.

 

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Da sinistra, Fabrizio Bartolucci, Gabriele Galasso e Lorenzo Peruzzi, tre dei coordinatori dello studio.


Fra i problemi causati dalle specie aliene, in particolare se invasive, vi sono quelli legati alla salute come nel caso delle allergie e delle irritazioni cutanee anche piuttosto gravi causate dall’ambrosia o dalla panàce di Mantegazza; oppure danni all’agricoltura e ancora la minaccia alla biodiversità come nel caso del fico degli Ottentotti sulle nostre coste rocciose e le pesti d’acqua in canali e laghi.

La diffusione di specie aliene è un fenomeno legato al processo di globalizzazione che va attentamente monitorato – spiega Lorenzo Peruzzi – le regioni che presentano il maggior numero di esotiche (e potenzialmente i maggiori problemi legati a fenomeni di invasione biologica) sono: Lombardia (776, di cui 111 invasive), Veneto (618, di cui 67 invasive) e Toscana (580, di cui 51 invasive)”.

Insieme a Lorenzo Peruzzi, il coordinamento nazionale della ricerca è stato svolto da Gabriele Galasso ed Enrico Banfi (Museo di Storia Naturale di Milano), Fabrizio Bartolucci e Fabio Conti (Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino, Università di Camerino - Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga), Nicola Ardenghi (Università di Pavia) e Laura Celesti-Grapow (Università La Sapienza di Roma). Il professore Peruzzi, in collaborazione con Brunello Pierini e Francesco Roma-Marzio, ha inoltre curato la parte dello studio relativo alla flora toscana.

 

 

Andrea Milani and Daniele Serra, two mathematicians from the University of Pisa have published the study in the journal “Nature” which has, for the first time, measured the asymmetrical component in the north-south gravitational field of Jupiter. This is one of the fundamental elements for the modeling of the internal structure of the planet.

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Jupiter (Image credit: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM)


The research is part of Juno, a NASA mission whose goal is to explore Jupiter. A spacecraft with nine instruments needed to carry out the experiments, is orbiting around the giant planet to determine its internal structure and composition, study the atmosphere, and map the magnetosphere. In particular, the research group from the University of Pisa, in collaboration with La Sapienza University of Rome, the University of Bologna-Forlì and the NASA Jet Propulsion Laboratory, has worked on determining the gravitational field through the analyses of Doppler data sent from the probe.

“Thanks to funding from the Italian Space Agency we have developed software which implements high-precision, refined mathematical models,” explains Daniele Serra. “Consequently, we are now able to determine the symmetrical part of Jupiter’s gravitational field a thousand times more accurately than in the past, and for the first time also the asymmetrical part, i.e. the part determined by a diverse distribution of the mass with respect to the equator. We have discovered that Jupiter’s northern hemisphere has a different mass distribution than the southern hemisphere; in other words Jupiter is pear shaped.

“Given that Jupiter has played a fundamental role in the evolution of the Solar System,” concludes Andrea Milani, ”a complete and in-depth knowledge of the planet and how it was formed can provide clues as to the formation of the planet Earth and further our understanding of the origin of life on Earth.”

 

C’è la firma di due matematici dell’Università di Pisa, Andrea Milani e Daniele Serra, nello studio pubblicato sulla rivista «Nature» che ha misurato per la prima volta la componente asimmetrica in direzione nord-sud campo gravitazionale di Giove, uno degli elementi fondamentali per modellizzare la struttura interna del pianeta.

La ricerca fa parte di Juno, una missione della NASA che ha come obiettivo l’esplorazione di Giove. Una sonda spaziale, con nove strumenti usati per eseguire gli esperimenti, orbita attorno al pianeta gigante allo scopo di determinarne la struttura e la composizione interna, di studiarne l’atmosfera e di mapparne la magnetosfera.

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Un'immagine di Giove (Image credit: NASA/JPL-Caltech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM)


In particolare, il gruppo di ricerca dell’Ateneo pisano, in collaborazione con le università La Sapienza di Roma, di Bologna-Forlì e il Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha lavorato alla determinazione del campo di gravità attraverso l’analisi di dati Doppler inviati dalla sonda.

“Grazie a finanziamenti dell’Agenzia Spaziale Italiana abbiamo sviluppato un software che implementa raffinati modelli matematici ad altissima precisione – spiega Daniele Serra – come conseguenza ora possiamo determinare con una accuratezza almeno mille volte migliore del passato la parte simmetrica del campo di gravità di Giove e per la prima volta anche la parte asimmetrica, cioè quella dovuta a una diversa distribuzione della massa rispetto all'equatore. Abbiamo scoperto che l’emisfero nord di Giove ha una distribuzione di massa diversa rispetto all’emisfero sud; per dirla in parole semplici: Giove ha la forma di una pera”.

“Poiché Giove ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del Sistema Solare – conclude Andrea Milani - avere una conoscenza completa e approfondita del pianeta e di come si è formato può fornire indizi sulla formazione del pianeta Terra e permetterebbe di fare un passo in avanti nella comprensione dell’origine della vita sulla Terra”.


Il diametro della pupilla rivela i tratti della nostra personalità: è quello che ipotizza una ricerca guidata da Paola Binda, ricercatrice dell'Università di Pisa, condotta insieme a Marco Turi della Fondazione Stella Maris Mediterraneo e al professor David Burr, docente dell’Università di Firenze. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale eLife e dimostra come le fluttuazioni del diametro pupillare durante la visione di un semplice stimolo visivo siano altamente predittive dei tratti di personalità di tipo autistico. In questo primo stadio, la ricerca ha coinvolto un gruppo di giovani adulti i cui tratti autistici si posizionavano nella gamma “sub-clinica”, in assenza, cioè, di un disturbo diagnosticato.

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Partendo dal presupposto che personalità diverse tendono a percepire la realtà in modo lievemente, ma sistematicamente diverso, lo studio ha dimostrato che il diametro delle nostre pupille tradisce il contenuto della nostra percezione, quello che vediamo e come lo vediamo. La conseguenza, potenzialmente rivoluzionaria, è che affiancando i test di personalità con un parametro obiettivo, che si misura in millimetri, il diametro pupillare potrebbe fornire indicazioni sulla nostra personalità.

“C’è crescente interesse nello studio della pupilla da quando noi, insieme ad altri laboratori, abbiamo dimostrato che il diametro pupillare riflette fedelmente cambiamenti del nostro stato di interesse, attivazione o attenzione – commenta Paola Binda – Naturalmente, la pupilla si costringe alla luce e si dilata al buio. Tuttavia, piccole fluttuazioni del diametro accompagnano spostamenti dell’attenzione: ad esempio, le pupille si costringono quando ci focalizziamo su oggetti più luminosi nel nostro campo visivo, e si dilatano se ci focalizziamo su oggetti più scuri”.

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Nella foto, da sinistra: David Burr, Paola Binda, Marco Turi.

“Il comportamento delle pupille dei nostri pazienti ci può dunque aprire una finestra sulla loro attenzione e percezione – prosegue Marco Turi – Ogni individuo ha una diversa tendenza a focalizzare la propria attenzione su oggetti diversi; per esempio, c’è chi tende ad avere una visione globale e chi si focalizza sul dettaglio. Queste tendenze si accompagnano in modo sistematico ai tratti di personalità, in particolare lungo lo spettro autistico – che abbraccia sia la popolazione con sviluppo cosiddetto tipico, sia i pazienti con un disturbo diagnosticato”.

"Il prossimo passo sarà misurare il comportamento delle pupille durante il nostro test nella popolazione clinica, che dovrebbe mostrare fluttuazioni di pupilla ancora più grandi rispetto ai partecipanti di questo studio – conclude David Burr – L’obiettivo è ambizioso, ma potrebbe avere un grande impatto e aiutare i clinici nel trovare un marcatore efficace e precoce dei disturbi dello spettro autistico".

I geologi li chiamano “terremoti silenti” perché non producono onde sismiche, e tuttavia l’ipotesi è che siano dei “campanelli di allarme” per tsunami e grandi eventi sismici. Per la prima volta una campagna oceanografica realizzata nell’ambito dell’International Ocean Discovery Program (IODP), un programma internazionale di ricerca in mare che ha l’obiettivo di decifrare la storia e le dinamiche del pianeta Terra, studierà questo fenomeno. Francesca Meneghini del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa è l’unica italiana del team internazionale composto da una trentina di ricercatori - fra statunitensi, giapponesi, neozelandesi ed europei - che sarà in missione per due mesi, dall’8 marzo al 5 maggio, su una nave oceanografica al largo della Nuova Zelanda.

 

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Francesca Meneghini, ricercatrice di Scienze della Terra dell'Ateneo


Scoperti solo recentemente, i “terremoti silenti” sono scivolamenti lenti delle pacche terrestri lungo una faglia che possono andare da pochi millimetri a qualche decimetro e durare settimane o mesi. Soprattutto, si tratta di movimenti che avvengono ad una velocità intermedia tra quella tipica delle placche tettoniche che è di 1-10 cm all’anno a quella necessaria a generare terremoti, che è intorno a 1 metro al secondo. “I collegamenti ipotizzati tra terremoti silenti e grossi sismi e tsunami - sottolinea Francesca Meneghini – pongono con urgenza alla ricerca scientifica il compito di decifrare le caratteristiche geologiche e geofisiche di questo fenomeno”.

 

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La nave oceanografica statunitense “Joides Resolution” utilizzata per la spedizione

L’obiettivo della campagna internazionale (di cui questa spedizione fa parte dopo una precedente del dicembre scorso) è quindi quello di investigare le condizioni in situ e i processi attivi in un’area in cui la placca pacifica scende in “subduzione" al di sotto del continente neozelandese. Per compiere lo studio la nave oceanografica eseguirà, a circa 2-300 metri sotto la superficie dell’acqua, tre perforazioni e carotaggi di circa 800 metri di profondità nel fondale marino. L’idea dei ricercatori è quella di caratterizzare chimico-fisicamente e geologicamente il materiale che “entra” nella zona di subduzione e quello deformato lungo la faglia che separa la placca pacifica e quella neozelandese cercando di decifrare come sedimenti e rocce si modificano.

“Poiché i terremoti silenti possono durare anche settimane o mesi – conclude Francesca Meneghini – installeremo anche degli “osservatori in pozzo” per monitorare le variazioni delle condizioni fisico-chimiche nel tempo, con la speranza di “registrare” anche a distanza uno di questi fenomeni”.



Il dipartimento di Chimica e Chimica industriale dell'Università di Pisa partecipa a un programma di ricerca internazionale che mira a sviluppare un dispositivo in grado di fornire una diagnosi rapida e affidabile di scompenso cardiaco da campioni di saliva. Il progetto, denominato KardiaTool, è stato finanziato dalla Commissione europea nell'ambito di "Horizon 2020" con 4,9 milioni di euro per i prossimi tre anni e mezzo. Il dipartimento pisano fa parte di un consorzio costituito da 14 partner di 10 diversi paesi (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti), con la presenza di università, centri di ricerca e imprese che insieme forniscono le garanzie necessarie per la riuscita del progetto in tutte le fasi di sviluppo. Per l'Italia è coinvolto anche l'Istituto di Fisiologia Clinica (IFC) del CNR, mentre capofila internazionale del progetto è l'Università di Lione.

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La piattaforma KardiaTool includerà un dispositivo portatile, KardiaPOC, per permettere al medico di rilevare in modo rapido e accurato alcuni biomarcatori di scompenso cardiaco. Tale piattaforma sarà associata al dispositivo KardiaLOC, un laboratorio-on-a-chip monouso e a basso costo, che integrerà sensori, con relativa biochimica di rivelazione basata su nanoparticelle magnetiche funzionalizzate, attuatori, sistemi microelettromeccanici e microfluidici in un unico spazio, per rilevare i biomarcatori in campioni di saliva. Inoltre, la piattaforma includerà anche KardiaSoft, un software di supporto decisionale basato su tecniche di modellazione predittiva che analizzerà i dati misurati dal KardiaPOC e fornirà informazioni sullo stato dello scompenso cardiaco e sull’efficacia della terapia.

"Nell'ambito di questo mega progetto internazionale - ha detto il professor Roger Fuoco, ordinario di Chimica analitica e referente scientifico dell'Università di Pisa - il dipartimento di Chimica e Chimica industriale metterà a punto le procedure di controllo e assicurazione di qualità dei risultati e coordinerà le attività previste in un trial pre-clinico in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa, di cui è referente la dottoressa Maria Giovanna Trivella, e, come terza parte, con la Fondazione Toscana Gabriele Monasterio. In particolare, i biomarcatori selezionati saranno misurati nei campioni di saliva dei pazienti sia con il dispositivo POC che mediante procedure analitiche di riferimento sviluppate presso il dipartimento. I due gruppi di dati analitici saranno analizzati e confrontati utilizzando strumenti statistici appropriati e le prestazioni del dispositivo KardiaPOC saranno valutate in termini di esattezza, precisione, specificità, interferenze e tempo di risposta".

Nella foto in alto da sinistra: Silvia Ghimenti, Tommaso Lomonaco, Francesca Bellagambi, Fabio Di Francesco, Roger Fuoco, Denise Biagini.

Lo studio paleopatologico di ‘pazienti’ celebri può trovare talvolta importanti riscontri nelle fonti storiche, ma assai raramente è possibile diagnosticare su resti scheletrici antichi di oltre 500 anni una patologia e poi rinvenire un documento, scritto di proprio pugno dall’illustre personaggio, in cui viene descritta la stessa malattia. È quanto è successo stavolta grazie a uno studio condotto sui resti scheletrici del duca Federico da Montefeltro (1422-1482) dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, diretta dalla professoressa Valentina Giuffra, in collaborazione con l’Istituto di Medicina Evolutiva dell’Università di Zurigo (Francesco Galassi e professor Frank Rühli). Lo studio è stato pubblicato sul numero di gennaio 2018 della rivista “Clinical and Experimental Rheumatology”.

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Federico da Montefeltro nel “Doppio ritratto dei Duchi d’Urbino” di Piero della Francesca (1465-1472). Galleria degli Uffizi.

I resti di Federico da Montefeltro, esumati a Urbino nel 2000 dalla Divisione di Paleopatologia di Pisa, portano inequivocabili i segni dell’artrite urica, una lesione osteolitica peri-articolare patognomonica del processo infiammatorio tipico della gotta è presente sull’epifisi distale del primo metatarsale del piede destro del duca. La gotta è una malattia conosciuta fin dall’antichità, anche se sotto questa definizione venivano comprese nella medicina premoderna molte altre patologie reumatiche. Alla gotta andavano particolarmente soggetti nel Medioevo e nel Rinascimento gli aristocratici, che facevano uso abbondante di alimenti ricchi di purine, come le carni rosse.

Nel giugno 1462 Federico si trovava nel Lazio a combattere al soldo di papa Pio II, quando un forte attacco doloroso al piede destro lo costringe a letto. Il duca allora scrive personalmente al proprio medico di fiducia Battiferro da Mercatello una lettera. Nella missiva, che oggi si trova conservata all’Archivio di Stato di Firenze, Federico descrive con dovizia di particolari l’insorgere dell’attacco gottoso, il decorso, le probabili cause e, con sorprendente competenza, si autodiagnostica la gotta. Riferisce della dieta molto severa che si è imposto, incolpando se stesso di non aver seguito le prescrizioni del medico, il quale aveva consigliato durante l’inverno 1461-62 l’uso di alcuni medicamenti proprio per scongiurare un ritorno della malattia, di cui il duca aveva già sofferto in precedenza.

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Lettera manoscritta di Federico da Montefeltro al medico Battiferro da Mercatello. Archivio di Stato di Firenze.

Antonio Fornaciari, primo autore dello studio, spiega: “Federico da Montefeltro, noto per essere stato uno dei più importanti capitani di ventura del ‘400, grande mecenate e scaltro uomo politico, ci appare qui in una prospettiva del tutto diversa da quella tramandataci nei serafici ritratti di Piero della Francesca. Nello scrivere al proprio medico traspare tutta la preoccupazione e l’ansia di un paziente sofferente che chiede insistentemente aiuto, un inedito quadro di living-experience da artrite urica del XV secolo”.

Lo studio, oltre ad arricchire la nosografia di Federico da Montefeltro e la casistica paleopatologica sui casi antichi di gotta, ha una grande valore metodologico dal momento che dimostra quanto sia proficua nella ricostruzione patografica e paleopatologica l’alleanza tra discipline diverse, mediche e filologiche, per arrivare a corrette ricostruzioni storico-mediche.

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Particolare della lesione erosiva della gotta nel primo metatarsale destro di Federico da Montefeltro.

Piante minacciate dall’eccessivo prelievo come il bucaneve o il pungitopo o specie che sono a rischio come il piccolo quadrifoglio d'acqua, ormai quasi scomparso nelle zone umide per via dell’inquinamento e che sopravvive con piccole popolazioni solo nella zona di Pisa. E ancora rane, raganelle e salamandre, specie minacciate sempre a causa dei cambiamenti ambientali. Per tutelare il patrimonio di biodiversità della Toscana è partito Monito-rare, un progetto che la Regione ha affidato alle Università di Pisa, Firenze e Siena e che sarà presentato al pubblico nel convegno "Governare la biodiversità" che si svolge a Firenze giovedì 22 febbraio.

Obiettivo del progetto è quello di monitorare gli habitat e le specie vegetali e animali come richiesto dalla Direttiva Habitat dell'Unione europea. Gli esiti dell’indagine confluiranno quindi nel rapporto nazionale curato dal Ministero dell'Ambiente che l'Italia invierà alla Commissione europea.

 

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Marsilea quadrifolia


"Per la prima volta in Toscana - dice Gianni Bedini responsabile del progetto per l’Università di Pisa - sperimenteremo sul campo i metodi di monitoraggio stilati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale applicandoli a circa cinquanta specie di animali e piante. I dati che raccoglieremo entro la fine dell'anno serviranno sia a validare o ricalibrare i metodi di monitoraggio, sia ad aggiornare le conoscenze sulla distribuzione delle popolazioni investigate e sui fattori che ne minacciano la sopravvivenza”.

 

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Bucaneve


L’Università di Pisa ha aderito a Monito-rare con il Dipartimento di Biologia e il Museo di Storia Naturale. Il gruppo pisano - composto da Gianni Bedini, Lorenzo Peruzzi, Giulio Petroni, Marco Zuffi, Giovanni Astuti e Matilde Boschetti - opererà d'intesa con quelli di Siena e di Firenze con il coordinamento di Bruno Foggi, botanico dell'Ateneo fiorentino.

"Tutti quanti condividiamo una fortissima motivazione a lavorare sulla conservazione della biodiversità toscana mettendo a sistema le nostre competenze e conoscenze in materia di distribuzione e demografia delle popolazioni da monitorare - conclude Bedini – nei prossimi mesi abbiamo in agenda degli incontri plenari per affrontare le criticità tecnico-scientifiche del monitoraggio e delle riunioni tecniche più ristrette per verificare il rispetto del cronoprogramma e l'adempimento degli obblighi amministrativi".

 

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