Contenuto principale della pagina Menu di navigazione Modulo di ricerca su uniPi Modulo di ricerca su uniPi

I disordini metabolici dovuti alla nutrizione eccessiva sono un problema ormai pressante per il sistema sanitario di molti paesi del mondo, dato che sono spesso associati a diverse e gravi patologie. In un articolo pubblicato sulla rivista PlosONE, il team di ricerca del Centro Piaggio dell’Università di Pisa guidato dalla professoressa Arti Ahluwalia, in collaborazione con l'Istituto di Fisiologia Clinca del CNR di Pisa e l'Università di Padova, propone un modo per studiare le patologie connesse all’obesità che si è rivelato particolarmente efficace proprio perché basato su uno studio attento dell’organismo umano, le cui funzioni vengono riprodotte da tessuti ingegnerizzati.

 

laboratorio_ahluwalia.jpg

 

“Fino ad oggi – spiega Arti Ahluwalia, direttrice del Centro Piaggio - l’uso di modelli animali per lo studio di disturbi metabolici era l’unico metodo esistente. Ma è un metodo con dei limiti perché l’obesità è un disturbo prettamente umano, e dipende dalla dieta e dallo stile di vita e questo è difficilmente riproducibile negli animali, che raramente mangiano più del necessario”.

I ricercatori del Centro Piaggio hanno quindi sviluppato un sistema in-vitro composto da più tessuti (grasso, fegato e tessuto vascolare) connessi tramite canali microfluidici per studiare l’insorgere di danni vascolari e segni di infiammazione sistemica legati all’aumento di tessuto adiposo fino a quantità che corrispondono nell’uomo a sovrappeso e obesità. Il risultato osservato è stato che i danni ai tessuti aumentano in modo proporzionale alla quantità di grasso, il che apre la strada per comprendere i meccanismi cellulari che sottendono la risposta dei tessuti all’eccesso di nutrizione.

"Da molti anni ormai – conclude la professoressa Ahluwalia - il Centro Piaggio dell’Università di Pisa è all’avanguardia nello studio di alternative alla sperimentazione animale. Non è una scelta dettata dall'ideologia, ma dall'evidenza sperimentale e dal progresso scientifico, che ci dicono che questa è una strada migliore per avere modelli sempre più precisi dei sistemi biologici, migliorando quindi al contempo le condizioni dell'uomo e degli animali, e approfondendo le nostre conoscenze su come funziona il nostro corpo".

L’applicazione della metodologia in vitro come alternativa alla sperimentazione animale è possibile grazie da una importante scoperta fatta dalla professoressa Ahluwalia e pubblicata lo scorso anno su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature. In questo studio infatti si dimostrava che è possibile applicare a cellule e tessuti coltivati in-vitro le medesime leggi universali dette ‘allometriche’ che regolano il metabolismo di tutti gli esseri viventi, piante e animali.

Crescita economica e nuovi casi di tumori crescono di pari passo, a mostrarlo è una ricerca condotta all’Università di Pisa su 122 Paesi nel mondo, Italia compresa. Lo studio firmato da Tommaso Luzzati, Angela Parenti e Tommaso Rughi del dipartimento di Economia e Management è stato pubblicato sulla rivista “Ecological Economics” e, oltre a rilevare il fenomeno, cerca anche di analizzare le cause della cosiddetta “epidemia di cancro” che colpisce moltissimi paesi, soprattutto sviluppati. Per farlo i tre economisti sono partiti dai dati provenienti dal database Globocan, un progetto dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità. L’analisi ha quindi riguardato 122 paesi, ovvero circa il 90% della popolazione mondiale, e le otto tipologie di tumori più diffuse (polmone, seno, colon-retto, prostata, stomaco, fegato, cervice uterina, esofago).

 

sviluppo economico e ambiente

 

“Secondo un’idea abbastanza diffusa – spiega Tommaso Luzzati - l’aumento dei casi di tumore nei paesi più ricchi sarebbe una “buona notizia” perché si legherebbe sia ad una migliore capacità di diagnosi e, quindi efficienza dei sistemi sanitari, sia all’allungamento della vita che “consentirebbe” alle persone di ammalarsi di cancro anziché morire prima per altre cause”.

Lo scopo principale della ricerca è stato quindi quello di valutare fino a che punto questa idea sia fondata.

“Gli esiti – afferma Luzzati - mostrano che l’incremento dei nuovi casi di cancro non può essere spiegato solo dalla maggiore aspettativa di vita, da statistiche migliori e da peculiarità regionali: piuttosto, un ruolo significativo deve essere attribuito al degrado ambientale e agli stili di vita, anche se purtroppo la nostra analisi empirica non è in grado di distinguere fra i due”.

Dunque stili di vita e qualità ambientale associati alla crescita economica hanno un ruolo fondamentale che si manifesta anche a livello molto aggregato, cioè, quando si va a studiare la relazione tra incidenza tumorale e Prodotto Interno Lordo pro capite, anche se non è facile stabilire il peso relativo di ciascuno dei due fattori. Ma che l’inquinamento ambientale giochi un ruolo non secondario secondo i ricercatori è visibile ad esempio nel caso dei tumori al polmone, in crescita anche se nei paesi più ricchi il numero dei fumatori è in diminuzione.

“Il messaggio politico che possiamo trarre dal nostro lavoro – conclude Luzzati - è che solo prendendo coscienza degli effetti negativi dello sviluppo economico saremo anche in grado di attuare politiche per affrontarli”.
La ricerca, per la sua originalità e per le sue implicazioni, ha suscitato interesse nella comunità scientifica, tra cui anche quello della rivista “Nature – Sustainability” che la riassume nel numero del 9 febbraio 2018.

Se c’è un problema ogni cavallo lo risolverà a modo suo, in base alla propria indole e al proprio carattere. In altre parole, la singola personalità di ogni animale influenzerà il suo modo di affrontare situazioni complesse e di superare gli ostacoli. La scoperta, che mette in relazione anche nei cavalli carattere e capacità cognitive, emerge da uno studio coordinato dai ricercatori dell’Università di Pisa in collaborazione con i colleghi della John Moores University di Liverpool e della Universitat Autònoma di Barcellona. I risultati della ricerca sono stati recentemente pubblicati in un articolo su Scientific Reports”, rivista del gruppo “Nature”.

“I cavalli hanno dimostrato di avere stili cognitivi diversi che permettono di usare strategie intellettive diverse per risolvere un certo problema - spiega Paolo Baragli del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Ateneo pisano - L’elemento molto importante è che questi diversi stili cognitivi sembrano essere strettamente connessi con la personalità degli individui”.

 

cavalli.jpg



Nell’esperimento condotto dai ricercatori un gruppo di cavalle sono state sottoposte a un test di detour, dovevano cioè aggirare un ostacolo per raggiungere un obiettivo, con la possibilità di scegliere fra una via più lunga e una più corta. L’intento era di capire quanto fossero flessibili nell’affrontare e risolvere un compito di cognizione spaziale. Il risultato è che gli animali hanno messo in atto strategie differenti e dunque l’ipotesi dei ricercatori è che il modo di agire sia legato alla loro diversa personalità.

Alcuni cavalli, ad esempio, sono stati più lenti ma più precisi nello scegliere la strada più breve e questo suggerisce uno stile cognitivo collegato a una personalità timida e più riflessiva, che li ha spinti a valutare bene il contesto e a riflettere accuratamente sulla soluzione migliore. Questi cavalli, in un contesto ecologico, probabilmente raccoglierebbero meno risorse ma correrebbero meno rischi nel farlo. Altri invece hanno scelto la velocità come strategia, a prescindere dalla lunghezza del tragitto da compiere. Sempre secondo i ricercatori si tratterebbe di soggetti dalla personalità impulsiva, spinti a ottenere un beneficio più rapidamente possibile. Questi soggetti in un contesto naturale potrebbero raggiungere più cibo degli altri ma, non prestando attenzione al contesto, correrebbero rischi maggiori. Alcuni cavalli, infine, hanno mostrato una tattica intermedia, e sebbene non precisi come i cavalli “riflessivi” sono riusciti ad unire velocità e capacità di scegliere la via breve, dimostrando una notevole flessibilità cognitiva.

“Nella gestione dei cavalli è molto importante avere approfondite conoscenze sulla loro personalità e sul loro lo stile cognitivo per rispettare il loro benessere psichico e nello stesso tempo ottimizzare i programmi di addestramento”, conclude Paolo Baragli. Insieme a lui hanno partecipato allo studio per l’Università di Pisa, Claudio Sighieri del Dipartimento di Scienze Veterinarie, Antonio Lanatà del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione ed Elisabetta Palagi del Museo di Storia Naturale.



 

Provengono tutti dalla Scuola di Ingegneria i progetti di ricerca selezionati nell’ambito della sesta call del MIT-UNIPI Project, l'iniziativa che dal 2012 promuove collaborazioni tra gruppi di ricerca dell'Università di Pisa e del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Tra le 8 proposte arrivate, ne sono state selezionate 5 per un finanziamento totale di 40.000 euro. Le ricerche sono tutte ad alto contenuto tecnologico e riguardano ambiti di forte innovazione: si va dallo sviluppo di dispositivi tattili per l’assistenza a ipovedenti nella deambulazione, alla progettazione di smart drive sicuri e sostenibili per veicoli elettrici; dallo studio di nuove interfacce aptiche che migliorino la percezione tattile umana, all’ideazione di reti elettrificate basate su energie rinnovabili per paesi in via di sviluppo, fino allo studio di nuove metodologie per migliorare le performance dei processi di servizio in ambito sanitario.

MIT-Gift-01_0.jpg

Dall’avvio della collaborazione con Boston sono stati finanziati 43 progetti per un totale di circa 300.000 euro. Le attività dei progetti, coordinate da un Principal Investigator (PI) della nostra Università e da uno del MIT, si svolgeranno da gennaio 2018 ad agosto 2019. Il contributo dell’Ateneo finanzia le spese di viaggio, vitto e alloggio del gruppo di ricerca pisano che si recherà a Boston. Analogamente il MIT finanzia le spese di viaggio, vitto e alloggio del suo gruppo di ricerca che si recherà a Pisa.

bianchi_pallottino_bicchi.jpgProvengono dal dipartimento di Ingegneria dell’informazione due dei progetti selezionati. Il primo, presentato da Matteo Bianchi, Lucia Pallottino e Antonio Bicchi, si intitola “Haptic Assistance in Autonomous Walking for Visually Impaired People”. Scopo del progetto è mettere a punto dispositivi tattili per il supportare persone ipovedenti e metterli in grado di passeggiare senza bisogno di ulteriori aiuti. Questo andrà così ad aumentare considerevolmente la loro autonomia personale, migliorando la qualità della loro vita, ma anche riducendo considerevolmente costi sociali e sanitari. Il dispositivo che verrà sviluppato sarà poco invasivo e indossabile, e basato su stimoli tattili che verranno forniti sulla base di dati visivi acquisiti da sistemi altrettanto poco invasivi, e guideranno la persona ipovedente in modo che eviti ostacoli e possa raggiungere il luogo di destinazione in modo sicuro, grazie all’integrazione ad alto livello di mappe e GPS.

Saponara
L’altro progetto del DII è di Sergio Saponara e si intitola “Modeling and Design of Safe and Sustainable Smart Drives for E-vehicles”. La ricerca intende fare fronte alla necessità di progettare e sviluppare nuove architetture per motori elettrici da applicare su veicoli, che assicurino alte prestazioni, affidabilità anche quando si trovano a operare in ambienti ostili, per esempio a causa di vibrazioni, variazioni di temperatura, umidità, interferenze elettromagnetiche, e, infine, garantiscano di poter risparmiare energia in modo efficiente. Verranno quindi messe a punto soluzioni innovative per motori elettrici e generatori compatti, energicamente efficienti, funzionali e sicuri, provvisti di sensoristica ed elettronica di controllo. Chiave per una progettazioni così complessa sarà l’integrazione con le competenze elevate sui motori elettrici del gruppo di ricerca del MIT.

rizzoGli altri tre progetti finanziati provengono invece dal dipartimento di Ingegneria dell'energia, dei sistemi, del territorio e delle costruzioni. Il primo, dal titolo "Electromagnetic/Magnetorheological Haptic Devices”, è stato presentato da Rocco Rizzo che, col suo team di ricerca, lavora alla progettazione di nuove interfacce aptiche basate sui fluidi magneto-reologici (MRF). Il progetto MIT-UNIPI ha lo scopo di rendere sinergiche le competenze del team pisano con quello del MIT diretto da Lynette Jones, impegnato in attività di ricerca nel campo della psicofisica tattile e del riconoscimento tattile e multisensoriale di oggetti. Lo scopo è migliorare la conoscenza scientifica della percezione tattile umana e sviluppare interfacce aptiche altamente innovative.

Fioriti_Poli_Giglioli_ok.jpgIl progetto di Davide Poli, Romano Giglioli e Davide Fioriti, dal titolo "Optimal Electrification Strategies for Rural Areas of Developing Countries through Mini-Grids: From Social Needs to Technical Sizing” mira a sviluppare tecniche ottimali di elettrificazione rurale basate non solo su aspetti energetici, ma anche sociali. Considerato che oltre un miliardo di persone oggi vivono senza elettricità nelle aree rurali dei paesi in via di sviluppo, il gruppo di ricerca studierà una soluzione tecnica molto promettente per favorire l'accesso di queste popolazioni all'energia elettrica. Creando una sinergia fra le competenze del MIT e quelle dell'Università di Pisa, i ricercatori lavoreranno per ideare e realizzare piccole reti isolate (mini-grid ibride), che utilizzano fonti rinnovabili disponibili in loco e sistemi di accumulo dell’energia.

aloini stefaniniInfine c’è il progetto di Davide Aloini e Alessandro Stefanini, dal titolo "Increasing Collaboration Among Healthcare Providers by studying Social Interactions", che ha l'obiettivo di migliorare le performance dei processi di servizio in ambito sanitario, studiando le dinamiche collaborative dei team di lavoro tramite approcci di tipo data-driven. La ricerca svilupperà e testerà sul campo modelli e metodologie innovative per l'analisi dei comportamenti organizzativi e delle dinamiche di processo, sfruttando le potenzialità offerte dai "Wearable Sensors" e le tecniche di "Process Mining" per l'analisi dei dati. A tale fine il team di ricerca lavorerà a contatto con i professori Thomas Malone e Peter Gloor del MIT Sloan School of Management.

Per la prima volta un team di ricercatori ha rivelato il meccanismo che permette alla quinoa di resistere all’esposizione ai raggi ultravioletti estremi consentendo a questa pianta di sopravvivere molto più a lungo rispetto ad altre specie erbacee.

Lo studio è stato finanziato dalla Schlumberger Foundation a Thais Huarancca Reyes, assegnista dell'Università di Pisa, nell’ambito del programma “Faculty for the Future”. A coordinare il gruppo è stato Lorenzo Guglielminetti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa che ha lavorato insieme alle colleghe Antonella Castagna e Annamaria Ranieri e in collaborazione con Andrea Scartazza del CNR ed Eric Cosio Caravasi della Pontificia Università Cattolica del Perù. I risultati della ricerca sono stati appena pubblicati in un articolo su “Scientific Reports, una delle riviste del gruppo Nature.

 

quinoa

Pianta di quinoa (Chenopodium quinoa Willd)


“Negli ultimi anni gli studi incentrati sulla percezione e sulla risposta ai raggi ultravioletti sono decisamente aumentati, un interesse legato anche alla riduzione dello strato di ozono nell’atmosfera degli ultimi decenni – ha spiegato il professore Lorenzo Guglielminetti - ma ricerche approfondite sulla risposta di una pianta adattata a esposizioni ultraviolette estreme, come la quinoa, non erano ad oggi ancora disponibili”.

foto gruppo quinoa.jpg

Lorenzo Guglielminetti e Thais Huarancca Reyes

 

In particolare, i ricercatori hanno indagato le reazioni di difesa che la quinoa, una pianta sempre più utilizzata per le preziose qualità nutrizionali e nutraceutiche dei suoi semi, mette in atto per rispondere a dosi elevate di raggi ultravioletti di tipo B. Lo studio ha quindi messo in luce gli adattamenti metabolici e fisiologici grazie ai quali la quinoa riesce a rallentare i processi degenerativi (diretti ed indiretti) tipici dello stress da raggi ultravioletti e che garantiscono a questa pianta una sopravvivenza più lunga rispetto ad altre analoghe specie erbacee.

“La comprensione di queste caratteristiche – ha concluso Lorenzo Guglielminetti - non riveste solamente un interesse scientifico, ma apre anche scenari applicativi per il miglioramento genetico di altre colture agrarie in risposta allo stress da raggi ultravioletti”.

 

Un team internazionale ha identificato per la prima volta tutti i geni trascritti nella pianta di girasole “potenziata” grazie alla simbiosi con un fungo benefico che ne favorisce la crescita e lo sviluppo. La ricerca è stata condotta dai genetisti e microbiologi dell’Università di Pisa, coordinati rispettivamente dal professore Andrea Cavallini e dalla professoressa Manuela Giovannetti, e dai bioinformatici del Centro di ricerca inglese Rothamsted Research. Lo studio è stato appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports del gruppo editoriale "Nature".

2018-Girasole-gruppo_ricerca

Il gruppo di ricerca: da sinistra, in basso: David Hughes, Rodolfo Bernardi, Alberto Vangelisti, Alessandra Turrini, Cristiana Sbrana, Andrea Cavallini; da sinistra, in alto: Manuela Giovannetti, Lucia Natali, Tommaso Giordani

“Il girasole è una delle quattro più importanti piante produttrici di olio, il prezioso olio di girasole, ricavato dai suoi semi e ricco di acidi grassi insaturi e vitamina E, che è sempre più utilizzato nell’industria alimentare - spiega Andrea Cavallini - Noi con questo studio abbiamo dimostrato che l’espressione di alcuni geni, fondamentali per la crescita e l’assorbimento dei nutrienti nel girasole, aumenta a seguito dell’instaurarsi della simbiosi con un fungo benefico”.

La collaborazione tra i genetisti, microbiologi e bioinformatici ha dunque portato alla identificazione del “trascrittoma”, cioè di tutti i geni espressi nella radice del girasole micorrizato, ovvero quando la pianta si trova a vivere in simbiosi con il fungo Rhizoglomus irregulare.


girasole

“La disponibilità del trascrittoma del girasole così potenziato potrà portare in futuro alla selezione di piante più resistenti agli stress ambientali e all’attacco dei patogeni da impiegare in sistemi produttivi più sostenibili e resilienti - conclude Manuela Giovannetti – oltre che promuovere ulteriori studi sui meccanismi molecolari che sono alla base degli incrementi di crescita e di assorbimento dei nutrienti da parte del girasole per prodotti destinati all’alimentazione umana con elevate proprietà nutritive”.

 

Più di sei mesi, è questo il tempo che serve al mare per “smaltire” le cosiddette buste ecologiche di nuova generazione. Senza dimenticare poi che la plastica biodegradabile di cui sono fatte può comunque alterare lo sviluppo delle piante e modificare alcune importanti variabili del sedimento marino come ad esempio ossigeno, temperatura e pH. Sono queste alcune delle conclusioni di uno studio condotto da un team di biologi dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica “Science of the Total Environment”. Il gruppo composto da Elena Balestri, Virginia Menicagli, Flavia Vallerini, Claudio Lardicci ha ricreato un ecosistema in miniatura per analizzare i potenziali effetti diretti o indiretti dell’immissione nell’ambiente marino delle nuove buste in bioplastica, la cui diffusione si prevede possa aumentare nei prossimi anni fino a raggiungere livelli simili a quelli delle buste tradizionali.


team_ricerca.jpg

Il gruppo di ricerca, da destra Flavia Vallerini, Virginia Menicagli, Claudio Lardicci, Elena Balestri


“La nostra ricerca si inserisce nel dibattito sul “marine plastic debris”, cioè sui detriti di plastica in mare, un tema globale purtroppo molto attuale – spiega il professore Lardicci dell’Ateneo pisano – quello che abbiamo potuto verificare è che anche le buste biodegradabili di nuova generazione attualmente in commercio hanno comunque tempi di degradazione lunghi, superiori ai sei mesi”.


processo_degradazione.jpg

Andamento della degradazione


Come specie modello i ricercatori hanno selezionato due piante acquatiche tipiche del Mediterraneo, la Cymodocea nodosa e la Zostera noltei, valutando quindi la loro risposta a livello di singola specie e di comunità rispetto alla presenza nel sedimento di della bioplatica compostabile. Lo studio ha quindi esaminato il tasso degradazione delle buste e alcune variabili chimico/fisiche del sedimento che influenzano lo sviluppo delle piante.

“Ad oggi la nostra ricerca è l’unica ad aver valutato i possibili effetti della presenza di bioplastiche sui fondali marini e sulla crescita di organismi vegetali superiori – conclude Lardicci – i rischi di una possibile massiccia immissione di plastiche cosiddette “biodegradabili” nei sedimenti marini e gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione sull’intero habitat sono aspetti in gran parte ignorati dall’opinione pubblica e non ancora adeguatamente indagati dalla letteratura scientifica”.

 

Per otto anni, dal 2008 al 2016, un’equipe di etologi dell’Università di Pisa ha monitorato gli spostamenti nel Mediterraneo di otto tartarughe comuni (Caretta caretta) per capire preferenze e abitudini di questa specie. E così ha scoperto che Crudelia, Obelix, Olivia e Honolulu (questi i nomi di alcuni esemplari) amano nuotare soprattutto nel golfo di Napoli, ma spaziano anche nell'area compresa tra la Campania, la Calabria e la Sicilia e se possono soggiornano volentieri nelle immediate vicinanze delle “seamounts”, cioè le montagne sottomarine la cui sommità può arrivare a poche centinaia o decine di metri dalla superficie.

La ricerca, finanziata dall’Università di Pisa con i fondi PRA, dalla Regione Toscana e dalla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli e condotta in collaborazione con il Centro per la conservazione delle tartarughe marine di Grosseto, è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica “Marine Biology” ed è uno dei pochi studi che fornisce informazioni dirette sull’ecologia e i movimenti delle tartarughe comuni nei mari a ovest della nostra penisola.

 

Honolulu_tartaruga.jpg



“L’identificazione di una zona marina utilizzata preferenzialmente dalle tartarughe comuni giovani, fornisce informazioni utili non solo per migliorare la conoscenza scientifica di fasi poco conosciute del ciclo di questa specie – spiega il professor Paolo Luschi dell’Ateneo pisano - ma anche per suggerire possibili misure di conservazione e tutela nella stessa area, ad esempio attraverso la diffusione di informazioni tra i pescatori sul tipo di reti e ami da impiegare per la pesca”.

Per ricostruire i movimenti delle otto tartarughe i ricercatori hanno applicato delle piccole trasmittenti sul carapace di ogni esemplare e utilizzato tecniche di telemetria satellitare tramite Argos, un sistema franco-americano di rilevazione a distanza della posizione degli animali, che si avvale di satelliti posti in orbita polare.


Olivia_tartaruga.jpg


Le tartarughe protagoniste della ricerca, tutte di taglia medio grande (con un carapace lungo più di 60 cm) e quindi in fase giovanile avanzata, erano state catturate accidentalmente, soprattutto da pescatori, e riabilitate in centri di recupero in Toscana e Campania. Dopo il rilascio, avvenuto vicino alle rispettive località di cattura, hanno raggiunto con movimenti veloci e diretti l’area marina compresa tra la Sicilia, la Sardegna e la costa occidentale della penisola Italiana, nella quale sono rimaste per l’intero periodo di osservazione.

“E’ di rilievo – conclude Luschi - il fatto che gli individui studiati, che erano rimasti in riabilitazione nei centri di recupero per vari mesi prima del rilascio, non abbiano mostrato alcuna evidente alterazione del loro comportamento a seguito del periodo di degenza”.

----

Nelle foto il rilascio di due delle tartarughe studiate dai biologi dell'Università di Pisa

Per divulgare la scienza ci vuole anche un po’ di sano umorismo. E’ questa una delle conclusioni che emerge da uno studio condotto da Elisa Mattiello ricercatrice di Lingua Inglese al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa che ha analizzato i TED Talks di ambito medico-scientifico tenuti fra il 2010 e il 2015. La ricerca, pubblicata sull’«International Journal of Language Studies», ha indagato le caratteristiche linguistiche dei TED Talks, un genere di comunicazione a metà strada fra una lezione universitaria e una conferenza che riflette anche degli influssi del Web per gli aspetti multimodali e l’ampia fruibilità su una piattaforma globale.

L’indagine si è concentrata in particolare su tre aspetti: la ridotta tecnicità dei contenuti e del lessico, l’utilizzo di un registro informale tipico della conversazione, incluso il tono umoristico, e l’uso della narrazione, attraverso esperienze o aneddoti personali, per introdurre gli argomenti specialistici.

 

ted talk



“Nei TED Talks i relatori usano raramente la terminologia medica o scientifica, se non accompagnata da spiegazioni o parafrasi e questo per comunicare anche ai non specialisti e ridurre la distanza con l’ascoltatore – spiega Elisa Mattiello - i TED Talks sono inoltre ricchi di parti narrative che permettono ai relatori di suscitare reazioni di simpatia o empatia da parte dell’audience, una loro peculiarità è poi l’umorismo, che può derivare da elementi di incongruenza, da autoironia e che soprattutto è utilizzato per alleggerire le tensioni derivanti da argomenti seri, delicati, come patologie o malattie”.

“Queste caratteristiche – aggiunge Elisa Mattiello – hanno contribuito ad affermare il successo dei TED Talks sia verso il grande pubblico sia verso gli specialisti e in particolare l’umorismo emerge come uno strumento di attrazione e persuasione, capace di confermare, anche rispetto ad una audience di esperti, la competenza del relatore e la sua familiarità con gli argomenti trattati”.


Elisa Mattiello

Elisa Mattiello ricercatrice di Lingua Inglese al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica


Lo studio della ricercatrice dell’Ateneo pisano, svolto nell’ambito del Programma di ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale 2015 ‘Knowledge Dissemination across Media in English’, ha quindi dimostrato come Internet abbia rivoluzionato il discorso specialistico e i suoi partecipanti, passando dalla comunicazione a senso unico dei generi monologici ad una conversazione pubblica con molteplici partecipanti. I TED Talks, infatti, non si rivolgono soltanto ad un pubblico di esperti co-presenti alle conferenze, ma anche ad un pubblico internazionale di partecipanti più vasto e variegato che accede ai talks sul Web.

 

Riferimenti all’articolo scientifico:
Elisa Mattiello, “The popularisation of specialised knowledge via TED Talks”, in "International Journal of Language Studies", Volume 11, Num. 4., Ottobre 2017, Numero speciale intitolato “English for Specific Purposes: Redefining the State of the Art”, curato da Emilia Di Martino, Gabriella Di Martino e Christopher Williams.

Due spedizioni del dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa sono in partenza per l'Antartide, una per contribuire a definire la storia geologica e ambientale di quel continente e l'altra per raccogliere meteoriti in grado di aiutarci a capire le origini del sistema solare. Entrambe fanno parte della XXXIII Campagna Antartica del Programma Nazionale delle Ricerche finanziata dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca.

DSCN2234.jpeg 

Il primo gruppo, formato dai ricercatori Chiara Montomoli e Stefano Casale, è partito dall'Italia martedì 5 dicembre, con arrivo previsto tre giorni dopo. L’area di studio è situata nel Convoy Range, a sud della base italiana "Mario Zucchelli", e rappresenta il punto di raccordo tra le ricerche geologiche italiane e tedesche nella Terra Vittoria Settentrionale e le ricerche geologiche neozelandesi nella Terra Vittoria Meridionale. In particolare, gli studiosi dell'Ateneo pisano lavoreranno sulle Montagne Transantartiche, che costituiscono un punto nodale per la ricostruzione dell’evoluzione geologica e geodinamica dell’intero continente e sono particolarmente significative anche per la ricostruzione della storia glaciale della Calotta Est Antartica.

I ricercatori si occuperanno del rilevamento geologico-strutturale nel tentativo di comprendere attraverso quali processi geologici l'Antartide abbia acquisito la sua attuale configurazione e di ricostruirne la storia nelle varie ere geologiche. Tra le attività previste durante la campagna, vi è lo studio dei depositi glaciali, al fine di ricostruire le principali tappe dell’evoluzione della Calotta Orientale, l’elemento più rilevante del complesso sistema antartico. La caratterizzazione e la datazione delle principali fasi della storia glaciale del Continente Bianco contribuisce, infatti, a fornire gli elementi necessari alla modellizzazione dei comportamenti futuri in risposta ai profondi cambiamenti ambientali indotti dal riscaldamento del clima. L’attività di ricerca, svolta nell’ambito di collaborazioni internazionali, consentirà di colmare una lacuna nella cartografia geologica di questo settore del Mare di Ross e di fornire nuovi dati rilevanti per l’avanzamento delle conoscenze sulla storia geologica e ambientale del continente Antartico.

gruppo_Montomoli.jpeg
Nella foto Chiara Montomoli e Stefano Casale.

La seconda spedizione, composta dai ricercatori Luigi Folco, Maurizio Gemelli e Matteo Masotta, a cui si aggregherà Jerome Gattacceca, del "Centre de Recherche et d’Enseignement de Géosciences de l’Environnement" di Aix en Provence-Marseille, si muoverà dall'Italia domenica 10 dicembre per rimanere circa due mesi in Antartide a caccia di meteoriti.

gruppo_Folco.jpeg
Nella foto, da sinistra: Maurizio Gemelli, Luigi Folco e Matteo Masotta.

Le vaste distese di ghiaccio della calotta polare Antartica, infatti, sono un terreno straordinario per la raccolta di meteoriti, che vengono concentrate dalla dinamica glaciale in particolari aree di ghiaccio blu dette "trappole per meteoriti” dove se ne possono trovare a decine. Le meteoriti sono frammenti di asteroidi, comete e pianeti e lo studio delle loro proprietà chimiche e fisiche permette di esplorare le origini del sistema solare, circa 4.5 miliardi di anni fa e la sua successiva evoluzione. L’Antartide costituisce quindi una sorta di Eldorado per le scienze planetarie.

I tre ricercatori del dipartimento pisano di Scienze della Terra e quello francese istalleranno un campo remoto a Butcher Ridge, al limite tra la calotta e le vette più interne delle Montagne Transantartiche, che servirà da base per le ricerche che verranno condotte a piedi e in skidoo Il supporto sarà fornito dalla base estiva italiana "Mario Zucchelli", 550 km più a nord. Ad attenderli a 80 gradi di latitudine sud ci sarà luce cristallina, temperature medie di -30 gradi e venti di 25 nodi. Il sito del progetto sulle "Meteoriti Antartiche" è raggiungibile all'indirizzo: http://meteoant.dst.unipi.it/index.php.

I due gruppi di ricercatori terranno un diario di viaggio dall'Antartide, con racconti, immagini e video pubblicati sulla pagina facebook "L'Università di Pisa in Antartide".

DEW03001_03128.jpeg

 

Questo sito utilizza solo cookie tecnici, propri e di terze parti, per il corretto funzionamento delle pagine web e per il miglioramento dei servizi. Se vuoi saperne di più, consulta l'informativa