Espressioni multiple, iperboliche, fatte di più parole unite da trattini, si va dalle più semplici che in italiano suonerebbero come “Principessa-per-un-giorno” sino alle più complesse e creative come “I-miei-quasi-leggings-che-sembrano-jeans”. L’uso di questa terminologia è al centro di uno studio sul linguaggio della moda nel mondo anglofono realizzato al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica “Text & Talk”. La professoressa Belinda Blanche Crawford ha compilato e analizzato un corpus di testi di circa 400,000 parole attingendo dalle più blasonate riviste di moda come Vogue, Women’s Wear Daily, Harper’s Bazaar e da alcuni fashion blog particolarmente popolari. Il risultato è che queste frasi “a trattini” (tecnicamente si chiamano hyphenated phrasal expressions) sono risultate tre volte più frequenti nel linguaggio della moda rispetto a quello standard, con frequenze particolarmente alte nei blog.
“L’uso di queste espressioni è tipico nel fashion journalism anglosassone, una tendenza che non sembra avere una corrispondenza in quello italiano - spiega Crawford - si tratta di espressioni che hanno una forte valenza descrittiva e valutativa e proprio per questo sono molto usate nell’ambito della moda dove gli aspetti visivi ed emotivi giocano un ruolo fondamentale”.
“Le blogger in particolare – continua Crawford - si distinguono per usare i “trattini” in modo creativo, arguto e non convenzionale in modo da costruire la propria identità come una voce sofisticata e spiritosa nella comunità discorsiva online della moda di cui fanno parte”.
Lo studio ha classificato tutte le “hyphenated phrasal expressions” secondo tre categorie: convenzionali, semi-convenzionali, e non-convenzionali. Nella prima categoria, si trovano espressioni che sono comunemente utilizzate dai parlanti nativi e che sono presenti nei dizionari, nella seconda c’è già un grado di variazione sufficiente da farle escludere dai dizionari, nella terza infine si trovano espressioni di fatto uniche formulate ad hoc per un determinato contesto.
“La ricerca – conclude la professoressa dell’Ateneo pisano – mette in risalto come le comunicazioni mediate da Internet possono favorire innovazioni nelle forme di espressione da parte di nuove e sempre più influenti figure del fashion journalism fornendo indicazioni anche per tutti coloro che aspirano a farne parte”.
Lezioni fuori sede per un gruppo di studenti dell'Università di Pisa che dal 25 maggio e per sei giorni sono stati in Belgio e Olanda dove hanno potuto visitare il Rijksmuseum di Leiden e il Musées royaux des Arts et d'Histoire de Brussels. I tredici studenti del corso Storia Sociale e Cultura Materiale dell'Antico Egitto (laurea magistrale OEVO: Orientalistica: Egitto, Vicino e Medio Oriente) accompagnati dal professore Gianluca Miniaci e dal dottor Mattia Mancini hanno così potuto sperimentare direttamente la museologia applicata alla cultura materiale dell'antico Egitto. L'iniziativa è stata finanziata con i fondi speciali per la didattica di Ateneo.
Riportiamo di seguito il resoconto del viaggio scritto da una delle studentesse, Martina Brentan.
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Tra mummie e statuine di ippopotami: alla scoperta della Cultura Materiale egiziana da Leiden a Bruxelles
Siamo in un’asettica stanza di vetro e il dr. Luc Delvaux - curatore della sezione egizia del Musée Art & Histoire di Bruxelles - scosta lentamente il velo bianco che copre qualcosa disposto su un lettino: è il corpo mummificato di una donna vissuta quasi 2000 anni fa, in corso di restauro e quindi nascosto a tutti gli altri visitatori.
Le espressioni di stupore sui nostri volti tradiscono l’emozione di questa esperienza esclusiva; solo una delle tante vissute durante il ciclo di lezioni fuori sede del corso di ”Storia Sociale e Cultura Materiale Egiziana’’ che hanno impegnato per 6 giorni, tra Olanda e Belgio, 13 studenti - Adriano Alfieri, Martina Betti, Martina Brentan, Giorgia Cipriani, Sonia Curti, Ramona D’Alfonso, David Gnesi, Federica Leonardis, Francesco Missiroli, Gabriella Rodriguez, Maria Tricomi, Lobna Youssef e Veronica Zampedri - accompagnati dal professor Gianluca Miniaci e dal Dr. Mattia Mancini.
Il viaggio, partito il 25 maggio, prevedeva la possibilità di svolgere lezioni in importanti istituzioni straniere, come l’Università di Leiden dove studiosi del calibro del Prof. Olaf Kaper e dei dottori Koen Donker Van Heel, Miriam Müller, Renate Dekker e Ben Haring ci hanno illustrato le molteplici ricerche dell’ateneo nel campo dell’egittologia.
Alla didattica frontale si è unita anche molta attività pratica grazie alla visita di due tra le collezioni egizie più importanti del mondo - Bruxelles e Leiden - accompagnati direttamente dai rispettivi curatori. Ed è così che la dott.ssa Petra Hogenboom - assistente curatrice del Rijksmuseum van Oudheden Museum - grazie a uno schermo touchscreen ci ha svelato il segreto di un’enorme mummia di coccodrillo: le bende ricreate in 3D improvvisamente spariscono mostrando non uno, ma due corpi di rettili adulti e di dozzine di cuccioli!
Nei depositi dei due musei abbiamo anche avuto la fortuna di toccare letteralmente con mano alcuni oggetti, facendo pratica nel maneggiare, descrivere e studiare antichissimi reperti. Basti pensare al momento in cui, sotto gli occhi attenti del professore, ognuno di noi ha potuto tenere in mano e osservare da vicino una figurina di ippopotamo in faience risalente a oltre 4000 anni fa.
Tutte queste esperienze, pensate nell’ottica di lezioni di museologia applicata ai contesti egittologi, non solo hanno accresciuto il nostro bagaglio culturale ma ci hanno permesso di provare aspetti caratteristici e pratici della vera attività professionale che speriamo diventerà, un giorno, il nostro futuro.
Martina Brentan
Biodegradabili, ma non innocue per l’ambiente, tanto da causare anomalie e ritardi nella crescita delle piante. E’ questo quanto emerge da uno studio sulle buste compostabili condotto da un team di biologi e chimici dell’Università di Pisa. La ricerca pubblicata su “Ecological Indicators”, rivista tra le più rilevanti nel settore delle scienze ambientali, ha esaminato l’impatto sulla germinazione delle piante delle più comuni buste di plastica per la spesa. In particolare l’analisi ha riguardato le tradizionali shopper non-biodegradabili realizzate con polietilene ad alta densità (HDPE) e quelle di nuova generazione, biodegradabili e compostabili, realizzate con una miscela di polimeri a base di amido.
I ricercatori hanno esaminato gli effetti fitotossici del lisciviato, ossia della soluzione acquosa che si forma in seguito all’esposizione delle buste agli agenti atmosferici e alle precipitazioni. Da quanto è emerso, entrambe le tipologie di shopper rilasciano in acqua sostanze chimiche fitotossiche che interferiscono nella germinazione dei semi, con la differenza che i lisciviati da buste non-biodegradabili agiscono prevalentemente sulla parte aerea delle piante mentre quelli delle buste compostabili sulla radice.
“Nella maggior parte degli studi condotti finora sull’impatto della plastica sull’ambiente, gli effetti delle macro-plastiche sulle piante superiori sono stati ignorati – spiega il professore Claudio Lardicci dell’Ateneo pisano – la nostra ricerca ha invece dimostrato che la dispersione delle buste, sia non-biodegradabili che compostabili, nell’ambiente può rappresentare una seria minaccia, dato che anche una semplice pioggia può causare la dispersione di sostanze fitotossiche nel terreno. Da qui l’importanza di informare adeguatamente sulla necessità di smaltire correttamente questi materiali, considerato anche che la produzione di buste compostabili è destinata a crescere in futuro e di conseguenza anche il rischio abbandonarle nell’ambiente”.
Il gruppo di lavoro che ha realizzato lo studio pubblicato su “Ecological Indicators” è composto da sei fra docenti, ricercatori e studenti dell’Università di Pisa. Il professore Claudio Lardicci e la dottoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia si occupano di conservazione, gestione e recupero degli ecosistemi costieri. Nel corso delle loro ricerche hanno rilevato la presenza di buste negli ambienti naturali, specialmente spiagge e fondali marini. Da qui lo spunto per approfondire la questione, vista la mancanza di studi scientifici sugli effetti delle macroplastiche sulle piante. Fanno parte del team anche la professoressa Anna Raspolli Galletti e la dottoressa Sara Fulignati del dipartimento di Chimica e Industriale, scienziate impegnate in progetti di ricerca sulla “green chemistry” e sui temi della ecosostenibilà. Lo studio è stato inoltre parte del progetto di ricerca di dottorato in Biologia della dottoressa Virginia Menicagli e della tesi di laurea in Biologia Marina della dottoressa Viviana Ligorini.
Plants are often defined as the green lungs of our planet and yet in order to produce new leaves and flowers they need only a little oxygen. This discovery comes from an international study recently published in “Nature” and carried out by researchers from the University of Pisa, Aachen, Copenhagen, Heidelberg and the Sant’Anna School of Advanced Studies.
“The identification of this capacity in plants,” explains Francesco Licausi, an associate professor of plant physiology at the University of Pisa and coordinator of the research, ”may have multiple applications, among which, for example, is the selection of species capable of resisting against environmental stress that reduces oxygen, such as high temperatures or floods, but also for more futuristic scenarios such as space farming, where the conditions of microgravity, in fact, reduce the transport of oxygen.”
Photo of the measurement of the oxygen level in the meristem of the tomato plant (Solanum lycopersicum) using a microscopic probe. (Author Daan Welts); Graphic representation of the measurement of the oxygen level in the meristem of the tomato plant (Solanum lycopersicum) using a microscopic probe. (Author Agnieszka Bochyńska)
The researchers were able to identify this mechanism in plants by measuring the levels of oxygen in an area of around a few hundred cells, called ‘plant shoot meristems‘ using a combination of microscopic electronic and biotechnological sensors. In this way, they were able to see that the levels of oxygen drop drastically precisely in those tissues responsible for the production of new leaves and flowers where a protein which is sensitive to oxygen, called ZPR2, acts.
Confocal micography of the Arabidopsis inflorescence meristem, the plant used as the model of study. The cellular walls are coloured blue, the young floral buds are marked with a green fluorescent protein while the production centre of the stem cells is distinguished by fluorescent red. (Author Daan Welts)
This discovery follows those made in past years by the same team of researchers and represents a big step forward in understanding how the production of new organs is linked to environmental parameters, therefore influencing growth and productivity.
“Preserving hypoxic conditions in order to maintain pluripotency is not specific to plants: numerous types of stem cells, including human stem cells, share this prerequisite,” concludes Daan A. Weits, a Dutch researcher at PlantLab in the Sant’Anna School of Advanced Studies, and the principal investigator of the research project. “This similarity is astonishing, considering how far apart plants and animals are from the point of view of evolution, even though they both represent the apex of the evolution of multicellular life on our planet.”
Le piante sono spesso definite come i polmoni verdi del nostro pianeta eppure per produrre nuove foglie e fiori hanno bisogno di poco ossigeno. La scoperta arriva da uno studio internazionale appena pubblicato su Nature e condotto dai ricercatori dell’Università di Pisa, Acquisgrana, Copenhagen, Heidelberg e della Scuola Superiore Sant’Anna.
“L’identificazione di questa capacità delle piante – spiega Francesco Licausi, professore associato di fisiologia vegetale all’Università di Pisa e coordinatore della ricerca – può avere molteplici applicazioni, fra cui ad esempio la selezione di specie capaci di resistere a stress ambientali che riducono l’ossigeno, come le alte temperature o le inondazioni, ma anche per scenari più avveniristici come le coltivazioni nello spazio, dove le condizioni di microgravità riducono appunto il trasporto di ossigeno”.
Fotografia della misurazione mediante sonda microscopica dei livelli di ossigeno all’interno del meristema della pianta di pomodoro (Solanum lycopersicum) (autore Daan Weits) e sua rappresentazione grafica (autrice Agnieszka Bochyńska)
Armati di una combinazione di sensori microscopici, di tipo elettronico e biotecnologico, i ricercatori sono arrivati a individuare questo meccanismo nelle piante misurando i livelli di ossigeno in una regione di circa poche centinaia di cellule, definita ‘meristema del germoglio’. In questo modo, hanno potuto osservare che i livelli di ossigeno calano drasticamente proprio nei tessuti responsabili della produzione di nuove foglie e fiori dove agisce una proteina sensibile all’ossigeno, chiamata ZPR2.
Questa scoperta segue quelle fatte negli anni passati dalla stessa squadra di ricercatori e rappresenta un notevole passo avanti nella comprensione di come la produzione di nuovi organi sia legata a parametri ambientali, influendo quindi su crescita e produttività.
Micrografia confocale del meristema dell’infiorescenza di arabidopsis, la pianta utilizzata come modello di studio. Le pareti cellulari sono colorate in blu, i giovani abbozzi fiorali sono marcati con una proteina fluorescente verde mentre il centro di produzione delle cellule staminali è distinto da fluorescenza rossa. (autore Daan Weits)
“Il mantenimento di condizioni ipossiche per mantenere pluripotenza non è specifico delle piante: numerosi tipi di cellule staminali, incluse quelle umane, condividono infatti questo requisito – conclude Daan A. Weits, ricercatore olandese al PlantLab della Scuola Sant'Anna e primo firmatario della ricerca – Questa similarità è stupefacente, considerando quanto piante e animali sono distanti da un punto di vista evolutivo, sebbene entrambi rappresentino i vertici evolutivi della vita multicellulare sul nostro pianeta”.
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Pubblicazione:
Daan A. Weits, Alicja B. Kunkowska, Nicholas C. W. Kamps, Katharina M.S. Portz, Niko K. Packbier, Zoe Nemec-Venza, Christophe Gaillochet, Jan U. Lohmann, Ole Pedersen, Joost T. van Dongen, Francesco Licausi
An apical hypoxic niche sets the pace of shoot meristem activity
Nature, 15 May, DOI: 10.1038/s41586-019-1203-6
Artificial intelligence can be used to solve one of the most complicated ‘puzzles’ which have occupied archaeologists since time immemorial, namely recognising and piecing together thousands of pottery fragments which regularly come to light during excavations. This is the result of ArchAIDE, a project coordinated by the MAPPA Laboratory of the Department of Civilizations and Forms of Knowledge of the University of Pisa which has led to the development of an innovative App based on the system of automated recognition and neural networks which makes use of technology similar to that used in the investigative field for facial recognition.
The project funded by the European Union under the H2020 programme lasted for three years from 2016 until May 2019, and engaged 35 researchers, IT experts, designers and video makers from nine universities, research centres and firms in 5 different countries (Italy, Germany, Great Britain, Israel and Spain).
“During archaeological investigations, thousands of pottery fragments are found. These were produced in the most diverse eras from prehistoric times to the present day, and which, like the pieces of a puzzle, when joined together, can offer a myriad of information about life in distant times,” says Professor Letizia Gualandi from MAPPALab at the University of Pisa. “At present, this operation is extremely time consuming and requires the expertise of specialists and so, for reasons of time or space, it is almost always impossible to catalogue all the pottery uncovered.”
The goal of the App from the ArchAIDE project is precisely to solve these problems, as it was developed to be a simple and effective field tool. It will be sufficient to photograph fragments using mobile devices (smartphones or tablets), for them to be recognised and the data shared in real time thus creating an archive which can be used by any researcher, academic or enthusiast wherever they are.
“At the moment the system has a level of accuracy of around 75% and uses two different neural networks which were specially created,” explains Francesca Anichini, project manager of ArchAIDE. “The first recognises the designs on the pottery fragment and the second recognises the ‘profile’ identifying the shape it belongs to. As well as recognising pottery, the App allows us to have dynamic information on our smartphones which up till now was only available from dozens of paper catalogues, quickening the work of archaeologists.”
The project team
The App will be presented to the public for the first time during the international conference ‘ArchAIDE. Archaeorevolution is now’ which will be held as the final event of the project on 13th and 14th May at the Centro Congressi Le Benedettine at the University of Pisa (Piazza San Paolo a Ripa D’Arno, 16).
“The more data which is added to the system, the more accurate recognition is, so for this reason,” concludes Francesco Anichini, “the goal is now to spread the use of the App and increase the contents by involving numerous other subjects both public and private at Italian and international level alongside the project partners.”
Usare l’intelligenza artificiale per risolvere uno dei “puzzle” più complessi che impegna gli archeologi da sempre, ovvero riconoscere e mettere insieme le migliaia di frammenti ceramici che emergono abitualmente durante gli scavi. E’ questo il risultato di ArchAIDE, un progetto europeo coordinato dal Laboratorio MAPPA del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa che ha portato alla realizzazione di una innovativa App basata su sistemi di apprendimento automatico e reti neurali che sfruttano una tecnologia simile a quella utilizzata in ambito investigativo per il riconoscimento facciale.
La App sarà presentata per la prima volta al pubblico durante la conferenza internazionale “ArchAIDE. Archaeorevolution is now” che si svolge a conclusione del progetto il 13 e 14 maggio al Centro Congressi Le Benedettine dell’Università di Pisa (Piazza San Paolo a Ripa D’Arno, 16). Durato tre anni, dal 2016 al 2019, e finanziato dall’Unione Europea sul programma H2020, il progetto ArchAIDE ha coinvolto oltre 35 fra ricercatori, informatici, designer, video makers provenienti da nove tra università, centri di ricerca e aziende di cinque paesi diversi (Italia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Spagna).
Il test della App
“Durante le indagini archeologiche vengono ritrovati migliaia di frammenti ceramici prodotti nelle epoche più diverse, dalla preistoria ai giorni nostri, quasi come tessere di un puzzle che, se ricostruito, può fornire moltissime informazioni sulla vita nelle epoche passate – racconta la professoressa Letizia Gualandi del MAPPALab dell’Ateneo pisano - attualmente, però, questa operazione è molto lunga e richiede competenze molto specialistiche e così, per motivi di tempo o di spazio, risulta quasi sempre impossibile catalogare tutte le ceramiche ritrovate”.
Inconvenienti che però la App del progetto ArchAIDE promette di risolvere proprio perché pensata come uno strumento da campo semplice ed efficace. Basterà infatti scattare una foto con un dispositivo mobile (smartphone o tablet) per riconoscere il frammento e quindi condividere in tempo reale i dati, creando così un archivio che potrà essere utilizzato da qualunque ricercatore, studioso o appassionato in qualunque luogo si trovi.
“Al momento il sistema funziona con una accuratezza intorno al 75% sfruttando due diverse reti neurali create appositamente – spiega Francesca Anichini dell’Ateneo pisano, project manager di ArchAIDE - la prima riconosce la decorazione del frammento e la seconda il “profilo” individuando la forma a cui appartiene”.
Una rappresentanza del team del progetto
Oltre a riconoscere la ceramica, la App permette inoltre di avere sul proprio smartphone informazioni dinamiche che fino ad oggi erano contenute solo in decine di cataloghi cartacei statici velocizzando moltissimo il lavoro degli archeologi.
“Più dati si immettono nel sistema, più diventa accurato il riconoscimento, per questo motivo – aggiunge Francesca Anichini – l’obiettivo adesso è diffondere l’uso della App coinvolgendo, accanto ai partner del progetto, numerosi altri soggetti pubblici e privati sia a livello italiano che internazionale”.
Insieme all’Università di Pisa, hanno partecipato al progetto il Cnr-Isti, le università di Tel Aviv (Israele), York (Gran Bretagna), Barcellona (Spagna), Colonia (Germania), due aziende spagnole (“Baraka Arqueologos” ed “ElementsCentre De Gestió i Difusió De Patrimoni Cultural”) e l’italiana Inera srl.
Una “colla” da utilizzare in caso di fratture non scomposte, una “rete” connettiva ad espansione da iniettare per riparare bacino e vertebre e delle “impalcature” in 3D per far rigenerare le ossa nei casi ancora più gravi. Sono questi i tre approcci per combattere l’osteoporosi basati su biomateriali innovativi e tecnologie avanzate che sono allo studio nell’ambito di Giotto, un progetto europeo del programma Horizon 2020 appena finanziato con oltre 5 milioni di euro per i prossimi quattro anni. Insieme a tredici partner scientifici e industriali di dieci diversi Paesi, nell’impresa è coinvolta anche l’Università di Pisa con il gruppo ricerca del professore Giovanni Vozzi e dall’ingegnere Carmelo De Maria del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Centro di ricerca “E. Piaggio”.
“Si tratterà di costruire sistemi intelligenti ritagliati sui singoli pazienti capaci di stimolare la rigenerazione ossea e di rallentare il processo osteoporotico attraverso il rilascio di molecole bioattive che naturalmente prodotte dal nostro organismo diminuiscono però con l’età – spiega il professor Giovanni Vozzi – l’idea in più è di dotare gli impianti di particelle magnetiche in grado di monitorare il processo di guarigione”.
L'osteoporosi è una malattia ossea molto comune e più frequente dopo la menopausa e con l'invecchiamento. Si manifesta quando la matrice ossea diventa più porosa, e di conseguenza le ossa diventano deboli e fragili - così fragili che una caduta o anche lievi sollecitazioni come piegarsi o tossire possono causare una frattura. È stato calcolato che una frattura osteoporotica si verifica ogni 3 secondi nel mondo, più comunemente nell'anca, nella colonna vertebrale o nel polso. Dopo una frattura, i pazienti possono perdere la loro indipendenza, soffrire di dolore cronico e diventare depressi, così l'osteoporosi si trasforma in un notevole carico socio-economico, da cui l’importanza di intervenire con politiche e interventi mirati come si propone di fare il progetto appena varato.
“In particolare nell’ambito di Giotto, il nostro compito – conclude Giovanni Vozzi - sarà quello di sviluppare un nuovo sistema di stampa 3D capace di processare i nanomateriali messi a punto nel progetto in modo per creare impianti multiscala e multimateriale da utilizzare nel caso di fratture con grossa perdita ossea. Questi impianti o impalcature saranno principalmente costituiti da collagene e idrossiapatite, presenti naturalmente nelle nostre ossa, più un materiale microplastico che si riassorbirà una volta rigenerato l’osso”.
Foto a destra: il team pisano, da sinistra, Giovanni Vozzi, Francesca Montemurro, Francesco Biagini, Aurora De Acutis, Gabriele fortunato, Anna Lapomarda e Carmelo De Maria
Immagine a sinstra: scaffold stampato in 3D con ingrandimento delle cellule umane che stanno “colonizzando” la struttura
Le piante endemiche italiane, presenti cioè solo nel nostro territorio, sono oltre 1400, un dato che ci rende il terzo Paese più ricco di diversità vegetale dell'area mediterranea. Tuttavia, si sa ben poco di molte di queste specie: spesso una descrizione morfologica di massima e poco più. Per colmare questa lacuna e contribuire alla protezione di queste piante, è appena partito un progetto (PRIN) dell’Università di Pisa finanziato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (MIUR) che per i prossimi tre anni, coinvolgerà le Università di Genova, Camerino, Napoli Federico II, Palermo e Cagliari.
“Numerosi studiosi saranno impegnati nel progetto e attiveremo anche 15 nuove collaborazioni per giovani ricercatori per raccogliere dati sulle varie specie, con attività sia sul campo che in laboratorio”, spiega il professore Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa, che coordina il lavoro.
La sfida, infatti, è di accumulare nuove conoscenze per circa il 10 per cento della flora endemica nazionale, integrando vari metodi di indagine sistematica, fra cui analisi distributive, morfologiche e genetiche, in modo da quantificare oggettivamente affinità e differenze tra le varie specie.
Alcune delle piante che saranno studiate, da sinistra, Armeria denticulata (specie endemica dei rilievi serpentinosi di Toscana e Liguria. Appartiene a un genere che conta ben 17, fra specie e sottospecie, endemiche italiane); Dianthus brachycalyx (specie segnalata per le più alte quote dell'Appennino, dal Lazio alla Calabria. Appartiene a un gruppo di specie affini che conta ben 18, fra specie e sottospecie, endemiche italiane); Ptilostemon niveus (specie endemica di Basilicata, Calabria e Sicilia, appartenente a un genere poco numeroso, che mostra in Italia la massima diversità); Santolina pinnata (specie endemica delle Alpi Apuane in Toscana, appartenente a un gruppo di specie affini che conta 6 specie endemiche italiane).
“Le piante endemiche sono la componente di maggior valore di una flora, spesso soggette ad un elevato rischio di estinzione – aggiunge Peruzzi –per poterle tutelare efficacemente dobbiamo prima conoscerne meglio le caratteristiche".
Uno degli obiettivi del progetto è infatti anche quello di aggiornare lo stato di rischio delle specie studiate secondo gli standard dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, una onlus riconosciuta dall’ONU impegnata nel conservare la biodiversità a livello mondiale.
Per dare l’avvio ufficiale ai lavori, lo scorso 25 marzo si sono ritrovati a Pisa i professori Gianluigi Bacchetta (Cagliari), Paolo Caputo (Napoli), Fabio Conti e Fabrizio Bartolucci (Camerino), Gianniantonio Domina (Palermo), Luigi Minuto e Gabriele Casazza (Genova). I vari partner hanno stabilito di concentrare il lavoro su alcuni gruppi appartenenti a quattro famiglie botaniche particolarmente ricche di specie endemiche (Asteraceae, Caryophyllaceae, Fabaceae e Plumbaginaceae) fra cui ad esempio i generi Armeria ('Spilloni'), Dianthus ('Garofani'), Ptilostemon ('Cardi') e Santolina ('Crespoline').
I partner riuniti a Pisa per l’avvio del progetto, da sinistra, Fabio Conti, Gabriele Casazza, Fabrizio Bartolucci, Luigi Minuto, Lorenzo Peruzzi, Gianniantonio Domina, Paolo Caputo, Gianluigi Bacchetta
"Grazie a questo progetto riusciremo a contribuire significativamente allo sviluppo delle conoscenze sulla flora endemica italiana – conclude Peruzzi – questi studi serviranno anche a cementare ed innalzare ulteriormente il livello qualitativo delle collaborazioni tra botanici sistematici italiani, incluse nuove leve in formazione".
È un bene per la ricerca scientifica di frontiera che i risultati di studi e ricerche siano liberamente accessibili alla comunità scientifica e al pubblico? Questa domanda è stata al centro di un incontro che si è svolto martedì 19 marzo nel Palazzo della Sapienza dell’Università di Pisa che ha visto protagonisti i vertici degli enti di ricerca europei, del mondo accademico e dell’editoria scientifica internazionale. L’evento era organizzato in collaborazione con Science Business e faceva parte di ERC=Science².
Erano presenti fra gli altri insieme al rettore dell’Ateneo pisano Paolo Mancarella, il vice presidente dell’European Research Council, Fabio Zwirner, la vice-presidente della Regione Toscana Monica Barni e il presidente del CNR Massimo Inguscio. Per l’Università di Pisa sono intervenuti anche i vincitori dei finanziamenti dell'European Research Council - Paola Binda, Gianluca Fiori e Benedetta Mennucci - accanto al prorettore per la ricerca in ambito europeo e internazionale Lisandro Benedetti-Cecchi.
Paolo Mancarella e Monica Barni.
Dopo la conferenza internazionale di aprile dello scorso anno e l'incontro di giugno sulla proposta della Commissione Europea, quello in Sapienza è stato il terzo appuntamento che l'Università di Pisa ha organizzato in vista di "Horizon Europe", il Programma Quadro europeo per la ricerca e l’innovazione 2021-2027. La “Scienza aperta” o “Open Science” è infatti un tema di straordinario rilievo, oltre che di grande attualità, dato che la Commissione Europea chiede di rendere liberamente disponibili le pubblicazioni scientifiche e i dati della ricerca. L’incontro in Sapienza ha sviluppato una riflessione sul tema cercando di offrire un proprio contributo su come la ricerca di frontiera possa realmente beneficiare di un approccio aperto alla scienza, senza tuttavia rinunciare ai suoi tratti distintivi in termini di qualità e competitività.
A questo link sono disponibili ulteriori informazioni e materiali sul convegno.
Qui di seguito si pubblica l’intervento del rettore Paolo Mancarella che ha introdotto la giornata.
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The future of frontier research: is there a “good way” to Open Science?
With great pleasure, I greet and welcome you to this opportunity to debate frontier research and its link with the Open Science Processes. We will discuss today with leading representatives of Italian and international institutions and bodies, qualified representatives of the scientific publishing and the academic world, along with the European Research Council grantees of our university. I am deeply grateful to all the panellists and particularly to the ERC Vice President, Fabio Zwirner, for accepting our invitation.
Da sinistra: Vincenzo Vespri, del MIUR, Philipp Kircher, European University Institute e University of Edinburgh, ERC grantee, Massimo Inguscio, presidente CNR Italia, Fabio Zwirner, vice presidente dell'European Research Council.
After last April international conference and the meeting in June on the proposal of the European Commission, this meeting today is the third event planned by the University of Pisa in preparation of "Horizon Europe", under the coordination of the Vice Rector for European and International Research, Professor Lisandro Benedetti-Cecchi and the Research and Technology Transfer Division. As in in the past, this event is organized in cooperation with Science Business and in this occasion also with the "ERC = Science2" project.
I also wish to recall the attention our University pays to the development of the Horizon Europe Program and to remember, with great pleasure, the recent establishment of the Belgian association TOUR4EU (Tuscan Organization of Universities and Research 4 Europe), which includes Regione Toscana and the seven Tuscan universities and schools. In this regard, I wish to greet Prof Monica Barni, vice-president of the Regione Toscana and president of TOUR4EU, and Dr Simona Costa, Director of TOUR4EU. I congratulate them both for the significant results of these very first months of activity, which stimulate to go ahead on the process we have started.
Philipp Kircher, European University Institute e University of Edinburgh.
These initiatives aim to strengthen the international competitiveness of our University on the international research scene, promoting the dialogue with those stakeholders "at the forefront" in the connection between the Italian research reality and the European institutions. This is how we could help to better define, in the appropriate venue, the perspectives of the Italian Academy, ahead of the negotiations, now at a crucial phase, on the final text of the European Framework Program for Research and Innovation 2021-2027.
Maryline Fiaschi, Managing Director, Science|Business.
In this context, Open Science is an extraordinarily crucial issue, as well as extremely topical, now that the European Commission asks the scientific publications and research data to be immediately available, free of charge and indefinitely reusable. As we all know, from the 1 January 2020, scientific publications resulting from funded research will have to be published in open access journals or on open access platforms, or in hybrid journals as long as they have committed with a transformative agreement to switch to full Open Access within a defined time frame.
Da sinistra: Michael Markie Publishing Director, Life Sciences, F1000 Research, Claudio Colaiacomo, Vice President, Global Academic Relations, Elsevier, Gianluca Fiori, professore all'Università di Pisa e ERC Grantee, Frederick Fenter, Executive Editor, Frontiers, Lisandro Benedetti Cecchi, prorettore alla Ricerca europea dell'Università di Pisa.
It is a perspective that involves fundamental aspects of the research system, if only we consider the evaluation criteria definition, and it requires a drastic revision of the current "ground rules" of the scientific publishing system. The extensive debate, been unleashed on a global scale, has made clear that this process might encompass many positive features: for instance and above all, the guarantee of more widespread, democratic and free access to research results. Nevertheless, we also have to consider controversial aspects that could compromise the system that currently ensures the quality of research.
Paola Binda, ERC grantee Università di Pisa.
Today's event, therefore, is meant to develop an open and balanced reflection on Open Science, trying to offer its contribution on how frontier research could benefit from an open approach, never refraining from its distinctive traits in terms of quality and competitiveness.
Benedetta Mennucci, ERC grantee Università di Pisa.
As its Statute defines, the University of Pisa endorses the principles of open access and has always committed to implementing institutional policies, with the aim at developing open access and promoting the international visibility of Italian research. With a clear concern of the forthcoming challenges, the University has recently established a specific Commission for the open access to scientific literature under the coordination of our Vice-Rector for National Research, Professor Claudia Martini. This Commission has developed an Open Access incentive proposal targeted for our faculty authors, with the aim of implementing the inclusion of research products on our institutional research archive (Iris Arpi) and complying with the principles of open access.
Our discussion today might act as a stimulus, along with other initiatives that will soon be planned in this regard, thus representing an adequate disclosure and awareness opportunity to the entire university community on Open Science.
Paolo Mancarella