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della_posta_cover.jpgPompeo Della Posta è professore associato di Economia politica al dipartimento di Economia e Management dell'Università di Pisa. Visiting professor in università e centri di ricerca in tutto il mondo, tra cui Canada, Cina, India, Giappone, Russia, Regno Unito e Stati Uniti, il profesore è attualmente presidente dell'Associazione internazionale del commercio e delle finanze e direttore della rivista scientifica «Scienza e Pace / Scienza e pace». "The Economics of Globalization. An Introduction" (Edizioni Ets, 2019) è il suo ultimo libro.

Pubblichiamo di seguito una presentazione del volume tratta da una intervista al professore.

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Quando inizia la globalizzazione economica?
Il primo periodo storico nel quale l’integrazione commerciale ha cominciato a produrre convergenza dei prezzi (è questo l’indicatore chiave che viene di solito considerato al fine di datare l’inizio della globalizzazione economica) è la seconda metà del 1800, e in particolare si prende come data simbolica il 1869, quando fu aperto il canale di Suez, grazie al quale il collegamento navale fra Europa e Asia divenne più diretto, accorciando significativamente i tempi di percorrenza.

La globalizzazione economica però non riguarda solo l’integrazione commerciale, ma anche quella dei fattori della produzione, vale a dire il lavoro e il capitale.
Quel periodo fu caratterizzato da enormi migrazioni volontarie e non episodiche (il 10% della popolazione mondiale viveva in un paese diverso da quello di nascita, a fronte del 3,4% che caratterizza i nostri giorni), e da ingenti movimenti di capitale (che dall’Europa, per esempio, si muovevano verso l’America per finanziarne lo sviluppo).

Si può tornare indietro?
La storia ci dice che è senz’altro possibile cambiare direzione. Basti pensare a quello che accadde nel periodo fra le due guerre mondiali. La prima fase della globalizzazione economica, quella che ebbe luogo fra la fine del 1800 e i primi del 1900 - il periodo del Liberty e della Belle Époque le cui testimonianze e la cui architettura ritroviamo ancora in tante città italiane ed europee - fu seguita da una chiusura economica catastrofica, caratterizzata dal grido di “America First” di allora. Quelle spinte protezionistiche si concretizzarono nelle barriere tariffarie alzate dagli americani contro le esportazioni europee e nelle svalutazioni competitive fra i paesi. Come è andata a finire lo sappiamo: è arrivata la II Guerra Mondiale.

 

ufficio bando copyL’Università di Pisa ha indetto una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il reclutamento di un tecnologo di secondo livello, a tempo determinato, per la durata di 18 mesi, con orario di lavoro a tempo pieno. La figura del tecnologo, introdotta recentemente nel panorama dei ruoli e dei servizi universitari, ha il compito di coadiuvare i team di ricerca dell’Università di Pisa nel reperimento di bandi e nella preparazione di proposte progettuali competitive riconducibili al dominio di ricerca dell’European Research Council (ERC) ‘Physical Sciences and Engineering’. La scadenza del bando, reperibile sull’Albo ufficiale online, è fissata a lunedì 8 luglio 2019.

Questa figura professionale dovrà collaborare alla redazione di progetti internazionali (particolare rilievo per H2020 e prossimo Horizon Europe), nazionali e regionali, con particolare riferimento alle componenti di ‘Impact’ e ‘Implementation’ o analogamente denominate, trasformando le idee dei ricercatori in proposte progettuali solide e competitive e assistendo i team di ricerca anche nella stesura della parte di innovazione, componenti cruciali per la valorizzazione dell’idea progettuale e per il buon esito della proposta stessa.

Il tecnologo collaborà quindi con i team di ricerca dell’Università di Pisa per la redazione di progetti di ricerca, con particolare riferimento a quelli internazionali di Horizon 2020 e quelli prossimi del Programma Quadro per la Ricerca e l'Innovazione dell’Unione Europea (FP9), oltre che per i bandi nazionali e regionali, trasformando le idee dei ricercatori in proposte progettuali solide e competitive.

La nuova figura andrà ad aggiungersi ai cinque tecnologi già operanti all’Università di Pisa che, con il loro lavoro, hanno contribuito a una netta crescita dei finanziamenti europei ottenuti nel 2018 all’Università di Pisa: i dati dicono che i progetti europei di ricerca vinti lo scorso anno sono 41, contro i 27 vinti del 2017 e i 17 vinti nel 2016, con un contributo di oltre 17,4 milioni di euro, triplicato rispetto alla media dei tre anni precedenti (2015, 2016, 2017), quando si attestava sui 6 milioni di euro.

Il bando è consultabile a questo link

Espressioni multiple, iperboliche, fatte di più parole unite da trattini, si va dalle più semplici che in italiano suonerebbero come “Principessa-per-un-giorno” sino alle più complesse e creative come “I-miei-quasi-leggings-che-sembrano-jeans”. L’uso di questa terminologia è al centro di uno studio sul linguaggio della moda nel mondo anglofono realizzato al dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista scientifica “Text & Talk”. La professoressa Belinda Blanche Crawford ha compilato e analizzato un corpus di testi di circa 400,000 parole attingendo dalle più blasonate riviste di moda come Vogue, Women’s Wear Daily, Harper’s Bazaar e da alcuni fashion blog particolarmente popolari. Il risultato è che queste frasi “a trattini” (tecnicamente si chiamano hyphenated phrasal expressions) sono risultate tre volte più frequenti nel linguaggio della moda rispetto a quello standard, con frequenze particolarmente alte nei blog.

 

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L’uso di queste espressioni è tipico nel fashion journalism anglosassone, una tendenza che non sembra avere una corrispondenza in quello italiano - spiega Crawford - si tratta di espressioni che hanno una forte valenza descrittiva e valutativa e proprio per questo sono molto usate nell’ambito della moda dove gli aspetti visivi ed emotivi giocano un ruolo fondamentale”.

“Le blogger in particolare – continua Crawford - si distinguono per usare i “trattini” in modo creativo, arguto e non convenzionale in modo da costruire la propria identità come una voce sofisticata e spiritosa nella comunità discorsiva online della moda di cui fanno parte”.

Lo studio ha classificato tutte le “hyphenated phrasal expressions” secondo tre categorie: convenzionali, semi-convenzionali, e non-convenzionali. Nella prima categoria, si trovano espressioni che sono comunemente utilizzate dai parlanti nativi e che sono presenti nei dizionari, nella seconda c’è già un grado di variazione sufficiente da farle escludere dai dizionari, nella terza infine si trovano espressioni di fatto uniche formulate ad hoc per un determinato contesto.

“La ricerca – conclude la professoressa dell’Ateneo pisano – mette in risalto come le comunicazioni mediate da Internet possono favorire innovazioni nelle forme di espressione da parte di nuove e sempre più influenti figure del fashion journalism fornendo indicazioni anche per tutti coloro che aspirano a farne parte”.

Lezioni fuori sede per un gruppo di studenti dell'Università di Pisa che dal 25 maggio e per sei giorni sono stati in Belgio e Olanda dove hanno potuto visitare il Rijksmuseum di Leiden e il Musées royaux des Arts et d'Histoire de Brussels. I tredici studenti del corso Storia Sociale e Cultura Materiale dell'Antico Egitto (laurea magistrale OEVO: Orientalistica: Egitto, Vicino e Medio Oriente) accompagnati dal professore Gianluca Miniaci e dal dottor Mattia Mancini hanno così potuto sperimentare direttamente la museologia applicata alla cultura materiale dell'antico Egitto. L'iniziativa è stata finanziata con i fondi speciali per la didattica di Ateneo.

Riportiamo di seguito il resoconto del viaggio scritto da una delle studentesse, Martina Brentan.

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Tra mummie e statuine di ippopotami: alla scoperta della Cultura Materiale egiziana da Leiden a Bruxelles

 

Siamo in un’asettica stanza di vetro e il dr. Luc Delvaux - curatore della sezione egizia del Musée Art & Histoire di Bruxelles - scosta lentamente il velo bianco che copre qualcosa disposto su un lettino: è il corpo mummificato di una donna vissuta quasi 2000 anni fa, in corso di restauro e quindi nascosto a tutti gli altri visitatori.

Le espressioni di stupore sui nostri volti tradiscono l’emozione di questa esperienza esclusiva; solo una delle tante vissute durante il ciclo di lezioni fuori sede del corso di ”Storia Sociale e Cultura Materiale Egiziana’’ che hanno impegnato per 6 giorni, tra Olanda e Belgio, 13 studenti -  Adriano Alfieri, Martina Betti, Martina Brentan, Giorgia Cipriani, Sonia Curti, Ramona D’Alfonso, David Gnesi, Federica Leonardis, Francesco Missiroli, Gabriella Rodriguez, Maria Tricomi, Lobna Youssef e Veronica Zampedri - accompagnati dal professor Gianluca Miniaci e dal Dr. Mattia Mancini.

Il viaggio, partito il 25 maggio, prevedeva la possibilità di svolgere lezioni in importanti istituzioni straniere, come l’Università di Leiden dove studiosi del calibro del Prof. Olaf Kaper e dei dottori Koen Donker Van Heel, Miriam Müller, Renate Dekker e Ben Haring ci hanno illustrato le molteplici ricerche dell’ateneo nel campo dell’egittologia.

Alla didattica frontale si è unita anche molta attività pratica grazie alla visita di due tra le collezioni egizie più importanti del mondo - Bruxelles e Leiden - accompagnati direttamente dai rispettivi curatori. Ed è così che la dott.ssa Petra Hogenboom - assistente curatrice del Rijksmuseum van Oudheden Museum - grazie a uno schermo touchscreen ci ha svelato il segreto di un’enorme mummia di coccodrillo: le bende ricreate in 3D improvvisamente spariscono mostrando non uno, ma due corpi di rettili adulti e di dozzine di cuccioli!

Nei depositi dei due musei abbiamo anche avuto la fortuna di toccare letteralmente con mano alcuni oggetti, facendo pratica nel maneggiare, descrivere e studiare antichissimi reperti. Basti pensare al momento in cui, sotto gli occhi attenti del professore, ognuno di noi ha potuto tenere in mano e osservare da vicino una figurina di ippopotamo in faience risalente a oltre 4000 anni fa.

Tutte queste esperienze, pensate nell’ottica di lezioni di museologia applicata ai contesti egittologi, non solo hanno accresciuto il nostro bagaglio culturale ma ci hanno permesso di provare aspetti caratteristici e pratici della vera attività professionale che speriamo diventerà, un giorno, il nostro futuro.

Martina Brentan

sviluppo_piante.jpgBiodegradabili, ma non innocue per l’ambiente, tanto da causare anomalie e ritardi nella crescita delle piante. E’ questo quanto emerge da uno studio sulle buste compostabili condotto da un team di biologi e chimici dell’Università di Pisa. La ricerca pubblicata su “Ecological Indicators”, rivista tra le più rilevanti nel settore delle scienze ambientali, ha esaminato l’impatto sulla germinazione delle piante delle più comuni buste di plastica per la spesa. In particolare l’analisi ha riguardato le tradizionali shopper non-biodegradabili realizzate con polietilene ad alta densità (HDPE) e quelle di nuova generazione, biodegradabili e compostabili, realizzate con una miscela di polimeri a base di amido.

I ricercatori hanno esaminato gli effetti fitotossici del lisciviato, ossia della soluzione acquosa che si forma in seguito all’esposizione delle buste agli agenti atmosferici e alle precipitazioni. Da quanto è emerso, entrambe le tipologie di shopper rilasciano in acqua sostanze chimiche fitotossiche che interferiscono nella germinazione dei semi, con la differenza che i lisciviati da buste non-biodegradabili agiscono prevalentemente sulla parte aerea delle piante mentre quelli delle buste compostabili sulla radice.

“Nella maggior parte degli studi condotti finora sull’impatto della plastica sull’ambiente, gli effetti delle macro-plastiche sulle piante superiori sono stati ignorati – spiega il professore Claudio Lardicci dell’Ateneo pisano – la nostra ricerca ha invece dimostrato che la dispersione delle buste, sia non-biodegradabili che compostabili, nell’ambiente può rappresentare una seria minaccia, dato che anche una semplice pioggia può causare la dispersione di sostanze fitotossiche nel terreno. Da qui l’importanza di informare adeguatamente sulla necessità di smaltire correttamente questi materiali, considerato anche che la produzione di buste compostabili è destinata a crescere in futuro e di conseguenza anche il rischio abbandonarle nell’ambiente”.

Il gruppo di lavoro che ha realizzato lo studio pubblicato su “Ecological Indicators” è composto da sei fra docenti, ricercatori e studenti dell’Università di Pisa. Il professore Claudio Lardicci e la dottoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia si occupano di conservazione, gestione e recupero degli ecosistemi costieri. Nel corso delle loro ricerche hanno rilevato la presenza di buste negli ambienti naturali, specialmente spiagge e fondali marini. Da qui lo spunto per approfondire la questione, vista la mancanza di studi scientifici sugli effetti delle macroplastiche sulle piante. Fanno parte del team anche la professoressa Anna Raspolli Galletti e la dottoressa Sara Fulignati del dipartimento di Chimica e Industriale, scienziate impegnate in progetti di ricerca sulla “green chemistry” e sui temi della ecosostenibilà. Lo studio è stato inoltre parte del progetto di ricerca di dottorato in Biologia della dottoressa Virginia Menicagli e della tesi di laurea in Biologia Marina della dottoressa Viviana Ligorini.

Plants are often defined as the green lungs of our planet and yet in order to produce new leaves and flowers they need only a little oxygen.  This discovery comes from an international study recently published in “Nature” and carried out by researchers from the University of Pisa, Aachen, Copenhagen, Heidelberg and the Sant’Anna School of Advanced Studies.

“The identification of this capacity in plants,” explains Francesco Licausi, an associate professor of plant physiology at the University of Pisa and coordinator of the research, ”may have multiple applications, among which, for example, is the selection of species capable of resisting  against environmental stress that reduces oxygen, such as high temperatures or floods, but also for more futuristic scenarios such as space farming, where the conditions of microgravity, in fact, reduce the transport of oxygen.”

 

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Photo of the measurement of the oxygen level in the meristem of the tomato plant (Solanum lycopersicum) using a microscopic probe. (Author Daan Welts); Graphic representation of the measurement of the oxygen level in the meristem of the tomato plant (Solanum lycopersicum) using a microscopic probe. (Author Agnieszka Bochyńska)

The researchers were able to identify this mechanism in plants by measuring the levels of oxygen in an area of around a few hundred cells, called ‘plant shoot meristems‘ using a combination of microscopic electronic and biotechnological sensors. In this way, they were able to see that the levels of oxygen drop drastically precisely in those tissues responsible for the production of new leaves and flowers where a protein which is sensitive to oxygen, called ZPR2, acts.

 

Confocal micography of the Arabidopsis inflorescence meristem, the plant used as the model of study. The cellular walls are coloured blue, the young floral buds are marked with a green fluorescent protein while the production centre of the stem cells is distinguished by fluorescent red. (Author Daan Welts)

This discovery follows those made in past years by the same team of researchers and represents a big step forward in understanding how the production of new organs is linked to environmental parameters, therefore influencing growth and productivity.

“Preserving hypoxic conditions in order to maintain pluripotency is not specific to plants: numerous types of stem cells, including human stem cells, share this prerequisite,” concludes Daan A. Weits, a Dutch researcher at PlantLab in the Sant’Anna School of Advanced Studies, and the principal investigator of the research project. “This similarity is astonishing, considering how far apart plants and animals are from the point of view of evolution, even though they both represent the apex of the evolution of multicellular life on our planet.”

 

 

 

Le piante sono spesso definite come i polmoni verdi del nostro pianeta eppure per produrre nuove foglie e fiori hanno bisogno di poco ossigeno. La scoperta arriva da uno studio internazionale appena pubblicato su Nature e condotto dai ricercatori dell’Università di Pisa, Acquisgrana, Copenhagen, Heidelberg e della Scuola Superiore Sant’Anna.

“L’identificazione di questa capacità delle piante – spiega Francesco Licausi, professore associato di fisiologia vegetale all’Università di Pisa e coordinatore della ricerca – può avere molteplici applicazioni, fra cui ad esempio la selezione di specie capaci di resistere a stress ambientali che riducono l’ossigeno, come le alte temperature o le inondazioni, ma anche per scenari più avveniristici come le coltivazioni nello spazio, dove le condizioni di microgravità riducono appunto il trasporto di ossigeno”.

 

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Fotografia della misurazione mediante sonda microscopica dei livelli di ossigeno all’interno del meristema della pianta di pomodoro (Solanum lycopersicum) (autore Daan Weits) e sua rappresentazione grafica (autrice Agnieszka Bochyńska)


Armati di una combinazione di sensori microscopici, di tipo elettronico e biotecnologico, i ricercatori sono arrivati a individuare questo meccanismo nelle piante misurando i livelli di ossigeno in una regione di circa poche centinaia di cellule, definita ‘meristema del germoglio’. In questo modo, hanno potuto osservare che i livelli di ossigeno calano drasticamente proprio nei tessuti responsabili della produzione di nuove foglie e fiori dove agisce una proteina sensibile all’ossigeno, chiamata ZPR2.

Questa scoperta segue quelle fatte negli anni passati dalla stessa squadra di ricercatori e rappresenta un notevole passo avanti nella comprensione di come la produzione di nuovi organi sia legata a parametri ambientali, influendo quindi su crescita e produttività.

 

Micrografia confocale del meristema dell’infiorescenza di arabidopsis, la pianta utilizzata come modello di studio. Le pareti cellulari sono colorate in blu, i giovani abbozzi fiorali sono marcati con una proteina fluorescente verde mentre il centro di produzione delle cellule staminali è distinto da fluorescenza rossa. (autore Daan Weits)



“Il mantenimento di condizioni ipossiche per mantenere pluripotenza non è specifico delle piante: numerosi tipi di cellule staminali, incluse quelle umane, condividono infatti questo requisito – conclude Daan A. Weits, ricercatore olandese al PlantLab della Scuola Sant'Anna e primo firmatario della ricerca – Questa similarità è stupefacente, considerando quanto piante e animali sono distanti da un punto di vista evolutivo, sebbene entrambi rappresentino i vertici evolutivi della vita multicellulare sul nostro pianeta”.

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Pubblicazione:
Daan A. Weits, Alicja B. Kunkowska, Nicholas C. W. Kamps, Katharina M.S. Portz, Niko K. Packbier, Zoe Nemec-Venza, Christophe Gaillochet, Jan U. Lohmann, Ole Pedersen, Joost T. van Dongen, Francesco Licausi

An apical hypoxic niche sets the pace of shoot meristem activity
Nature, 15 May, DOI: 10.1038/s41586-019-1203-6

 

 

Artificial intelligence can be used to solve one of the most complicated ‘puzzles’ which have occupied archaeologists since time immemorial, namely recognising and piecing together thousands of pottery fragments which regularly come to light during excavations. This is the result of ArchAIDE, a project coordinated by the MAPPA Laboratory of the Department of Civilizations and Forms of Knowledge of the University of Pisa which has led to the development of an innovative App based on the system of automated recognition and neural networks which makes use of technology similar to that used in the investigative field for facial recognition.

The project funded by the European Union under the H2020 programme lasted for three years from 2016 until May 2019, and engaged 35 researchers, IT experts, designers and video makers from nine universities, research centres and firms in 5 different countries (Italy, Germany, Great Britain, Israel and Spain).


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“During archaeological investigations, thousands of pottery fragments are found. These were produced in the most diverse eras from prehistoric times to the present day, and which, like the pieces of a puzzle, when joined together, can offer a myriad of information about life in distant times,” says Professor Letizia Gualandi from MAPPALab at the University of Pisa. “At present, this operation is extremely time consuming and requires the expertise of specialists and so, for reasons of time or space, it is almost always impossible to catalogue all the pottery uncovered.”

The goal of the App from the ArchAIDE project is precisely to solve these problems, as it was developed to be a simple and effective field tool. It will be sufficient to photograph fragments using mobile devices (smartphones or tablets), for them to be recognised and the data shared in real time thus creating an archive which can be used by any researcher, academic or enthusiast wherever they are.

“At the moment the system has a level of accuracy of around 75% and uses two different neural networks which were specially created,” explains Francesca Anichini, project manager of ArchAIDE. “The first recognises the designs on the pottery fragment and the second recognises the ‘profile’ identifying the shape it belongs to. As well as recognising pottery, the App allows us to have dynamic information on our smartphones which up till now was only available from dozens of paper catalogues, quickening the work of archaeologists.”

 

The project team

The App will be presented to the public for the first time during the international conference ‘ArchAIDE. Archaeorevolution is now’ which will be held as the final event of the project on 13th and 14th May at the Centro Congressi Le Benedettine at the University of Pisa (Piazza San Paolo a Ripa D’Arno, 16).

“The more data which is added to the system, the more accurate recognition is, so for this reason,” concludes Francesco Anichini, “the goal is now  to spread the use of the App and increase the contents by involving numerous other subjects both public and private at Italian and international level alongside the project partners.” 

 

 

Usare l’intelligenza artificiale per risolvere uno dei “puzzle” più complessi che impegna gli archeologi da sempre, ovvero riconoscere e mettere insieme le migliaia di frammenti ceramici che emergono abitualmente durante gli scavi. E’ questo il risultato di ArchAIDE, un progetto europeo coordinato dal Laboratorio MAPPA del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa che ha portato alla realizzazione di una innovativa App basata su sistemi di apprendimento automatico e reti neurali che sfruttano una tecnologia simile a quella utilizzata in ambito investigativo per il riconoscimento facciale.

La App sarà presentata per la prima volta al pubblico durante la conferenza internazionale “ArchAIDE. Archaeorevolution is now” che si svolge a conclusione del progetto il 13 e 14 maggio al Centro Congressi Le Benedettine dell’Università di Pisa (Piazza San Paolo a Ripa D’Arno, 16). Durato tre anni, dal 2016 al 2019, e finanziato dall’Unione Europea sul programma H2020, il progetto ArchAIDE ha coinvolto oltre 35 fra ricercatori, informatici, designer, video makers provenienti da nove tra università, centri di ricerca e aziende di cinque paesi diversi (Italia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Spagna).


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Il test della App


“Durante le indagini archeologiche vengono ritrovati migliaia di frammenti ceramici prodotti nelle epoche più diverse, dalla preistoria ai giorni nostri, quasi come tessere di un puzzle che, se ricostruito, può fornire moltissime informazioni sulla vita nelle epoche passate – racconta la professoressa Letizia Gualandi del MAPPALab dell’Ateneo pisano - attualmente, però, questa operazione è molto lunga e richiede competenze molto specialistiche e così, per motivi di tempo o di spazio, risulta quasi sempre impossibile catalogare tutte le ceramiche ritrovate”.

Inconvenienti che però la App del progetto ArchAIDE promette di risolvere proprio perché pensata come uno strumento da campo semplice ed efficace. Basterà infatti scattare una foto con un dispositivo mobile (smartphone o tablet) per riconoscere il frammento e quindi condividere in tempo reale i dati, creando così un archivio che potrà essere utilizzato da qualunque ricercatore, studioso o appassionato in qualunque luogo si trovi.
“Al momento il sistema funziona con una accuratezza intorno al 75% sfruttando due diverse reti neurali create appositamente – spiega Francesca Anichini dell’Ateneo pisano, project manager di ArchAIDE - la prima riconosce la decorazione del frammento e la seconda il “profilo” individuando la forma a cui appartiene”.

 

Una rappresentanza del team del progetto



Oltre a riconoscere la ceramica, la App permette inoltre di avere sul proprio smartphone informazioni dinamiche che fino ad oggi erano contenute solo in decine di cataloghi cartacei statici velocizzando moltissimo il lavoro degli archeologi.

“Più dati si immettono nel sistema, più diventa accurato il riconoscimento, per questo motivo – aggiunge Francesca Anichini – l’obiettivo adesso è diffondere l’uso della App coinvolgendo, accanto ai partner del progetto, numerosi altri soggetti pubblici e privati sia a livello italiano che internazionale”.

Insieme all’Università di Pisa, hanno partecipato al progetto il Cnr-Isti, le università di Tel Aviv (Israele), York (Gran Bretagna), Barcellona (Spagna), Colonia (Germania), due aziende spagnole (“Baraka Arqueologos” ed “ElementsCentre De Gestió i Difusió De Patrimoni Cultural”) e l’italiana Inera srl.

 

team pisanoUna “colla” da utilizzare in caso di fratture non scomposte, una “rete” connettiva ad espansione da iniettare per riparare bacino e vertebre e delle “impalcature” in 3D per far rigenerare le ossa nei casi ancora più gravi. Sono questi i tre approcci per combattere l’osteoporosi basati su biomateriali innovativi e tecnologie avanzate che sono allo studio nell’ambito di Giotto, un progetto europeo del programma Horizon 2020 appena finanziato con oltre 5 milioni di euro per i prossimi quattro anni. Insieme a tredici partner scientifici e industriali di dieci diversi Paesi, nell’impresa è coinvolta anche l’Università di Pisa con il gruppo ricerca del professore Giovanni Vozzi e dall’ingegnere Carmelo De Maria del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Centro di ricerca “E. Piaggio”.

“Si tratterà di costruire sistemi intelligenti ritagliati sui singoli pazienti capaci di stimolare la rigenerazione ossea e di rallentare il processo osteoporotico attraverso il rilascio di molecole bioattive che naturalmente prodotte dal nostro organismo diminuiscono però con l’età – spiega il professor Giovanni Vozzi – l’idea in più è di dotare gli impianti di particelle magnetiche in grado di monitorare il processo di guarigione”.

scaffold.jpgL'osteoporosi è una malattia ossea molto comune e più frequente dopo la menopausa e con l'invecchiamento. Si manifesta quando la matrice ossea diventa più porosa, e di conseguenza le ossa diventano deboli e fragili - così fragili che una caduta o anche lievi sollecitazioni come piegarsi o tossire possono causare una frattura. È stato calcolato che una frattura osteoporotica si verifica ogni 3 secondi nel mondo, più comunemente nell'anca, nella colonna vertebrale o nel polso. Dopo una frattura, i pazienti possono perdere la loro indipendenza, soffrire di dolore cronico e diventare depressi, così l'osteoporosi si trasforma in un notevole carico socio-economico, da cui l’importanza di intervenire con politiche e interventi mirati come si propone di fare il progetto appena varato.

“In particolare nell’ambito di Giotto, il nostro compito – conclude Giovanni Vozzi - sarà quello di sviluppare un nuovo sistema di stampa 3D capace di processare i nanomateriali messi a punto nel progetto in modo per creare impianti multiscala e multimateriale da utilizzare nel caso di fratture con grossa perdita ossea. Questi impianti o impalcature saranno principalmente costituiti da collagene e idrossiapatite, presenti naturalmente nelle nostre ossa, più un materiale microplastico che si riassorbirà una volta rigenerato l’osso”.

 

Foto a destra: il team pisano, da sinistra, Giovanni Vozzi, Francesca Montemurro, Francesco Biagini, Aurora De Acutis, Gabriele fortunato, Anna Lapomarda e Carmelo De Maria

Immagine a sinstra: scaffold stampato in 3D con ingrandimento delle cellule umane che stanno “colonizzando” la struttura

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