Un compleanno amaro
Venticinque anni di eccellenza, di ricerca pubblica al servizio della collettività. Ma anche venticinque anni a rischio per i tagli dei finanziamenti alla ricerca, che mettono in pericolo la possibilità di continuare a formare professionalità votate all’innovazione. Il compleanno della scuola di dottorato in informatica dell’università pisana è stato un compleanno amaro. I finanziamenti alle scuole di dottorato sono calati drasticamente a partire dal 2008 e non sembra proprio che i prossimi anni saranno più ricchi. Dopo la crescita dell’attenzione e del sostegno pubblico degli anni scorsi, è arrivato un periodo di vacche magre e qualcuno ha scelto di tagliare sul futuro: a Pisa, questo ha significato la riduzione della metà delle borse di studio per i dottorandi. Una scelta che non è solo ingiusta per i ragazzi che si vedono togliere le possibilità che erano aperte ai fratelli maggiori: è anche profondamente antieconomica e non è difficile capire perché.
Gli investimenti nella ricerca hanno tempi lunghi: non ci si può aspettare di veder rientrare i soldi in pochi mesi e nemmeno in pochi anni. Però quando questi soldi rientrano, la scienza si rivela mediamente un ottimo investimento: ad esempio, uno studio dello US Government Accounting Office ha valutato, per il settore ricerca e sviluppo, un indice di redditività del capitale investito intorno al 20-30% all’anno. Se poi il capitale iniziale è speso per la formazione, il conto appare ancora più favorevole, anche perché uno studente di dottorato costa davvero poco: 48.000 euro di borse di studio, oneri sociali compresi, più i costi dei corsi, dei laboratori, dei periodi all’estero. Più o meno 70.000 euro, per l’intero triennio. Costa poco e può rendere moltissimo.
Dev’essere questo il ragionamento che hanno fatto in Finlandia. In Finlandia si investe il 3,5% del Pil in ricerca, più che in Giappone, in Usa e in Germania. Dal 1998 a oggi il numero dei dottorati è aumentato a un ritmo del 3% annuo, in dieci anni è cresciuto del 50% contro il 20% italiano, tanto che lo 0,11% della popolazione adesso possiede il titolo (contro lo 0,08% italiano). Negli stessi dieci anni il Pil finlandese è cresciuto del 20% rispetto al nostro. Qui invece lo Stato destina alla ricerca scientifica lo 0,56% del Pil e i privati persino di meno, per un complessivo, miserrimo, 1,1%. Per non parlare, in particolare, dei finanziamenti alla formazione degli scienziati, come quella delle scuole di dottorato, che stanno calando nonostante i buoni risultati.
La scuola Galileo, per esempio, non avrà più il finanziamento speciale ottenuto per due trienni a fronte di valutazioni molto buone e in particolare la scuola di informatica, da cui proviene circa un professore universitario di informatica su quattro in tutto il paese, ha subito un taglio del 50% delle borse di studio. Lo stesso vale, nell’insieme, per tutte le scuole del paese: un’indagine su quattromila giovani dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo in sette atenei italiani tra il 2005 e il 2007, parte del progetto interuniversitario Stella (Statistiche sul TEma Laureati e Lavoro), ha mostrato la soddisfazione degli studenti rispetto alla formazione ricevuta: la maggior parte di loro è soddisfatto e rifarebbe la stessa scelta e tre quarti di quelli che hanno seguito un corso in scienze “dure’’ dichiarano di aver imparato davvero a fare ricerca. C’è di più: quasi tutti lavorano, anche se spesso in modo precario e quasi tutti nel pubblico. Eppure si è deciso di tagliare.
Apriamo una parentesi. Il fatto che i dottori di ricerca lavorino spesso in modo precario e quasi tutti nel pubblico non è affatto una questione da liquidare in un rigo. Il nostro tessuto economico, per ragioni antiche e strutturali, fatica a capire che un dottore di ricerca non è semplicemente un laureato un po’ più anziano, ma è un professionista con una formazione superiore. Il risultato è che i dottori di ricerca che siamo riusciti a formare in questi anni spesso se ne sono andati all’estero, dove la ricerca pubblica e privati hanno saputo apprezzarli meglio e magari pagarli di più. Ciò non toglie che eliminare i dottorati non sia la soluzione al problema, semmai per aggravarlo e per continuare a vivere su un’economia che raramente investe nell’innovazione.
Alla fine dei conti, il quadro è quello di una sostanziale regressione: meno finanziamenti pubblici, pochissimi dai privati, nessuna lungimiranza, scarsa attenzione a quello che accade nel resto del mondo e un’accoglienza freddina da parte del mercato. Un balzo indietro di venticinque anni. Per invertire questa tendenza è sempre più importante ricordare la necessità di investire nella formazione di persone capaci di guidare l’innovazione. Nonostante la crisi, anzi soprattutto per la crisi. (p.d.)