Visualizzare l’invisibile mondo delle molecole
Visualizzare elementi biologici come le sinapsi interneuronali, gli organelli cellulari, i cromosomi e i virus in modo da comprendere meglio il loro funzionamento. Tutto ciò oggi è possibile grazie a nuove tecniche microscopiche in fluorescenza ad alta risoluzione, una metodica su cui ha fatto il punto una ricerca internazionale di cui è partner il dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa. I risultati dello studio, durato tre anni e svolto in collaborazione con l’École polytechnique fédérale de Lausanne, l’University of East Anglia e l’Università dell’Aquila, sono stati appena pubblicati su “The Journal of the Federation of European Biochemical Societies”.
“Oggi, possiamo contare il numero di molecole presenti in varie strutture biologiche, determinare l’interazione tra proteine e visualizzare il meccanismo di attivazione recettoriale indotta da farmaci o sostanze naturali”, ha spiegato Marco Scarselli che coordina il team dell’Ateneo pisano composto da Stefano Aringhieri, Shivakumar Kolachalam e Giovanni U. Corsini.
Nel campo delle scienze biologiche, l’utilizzo della microscopia ad alta risoluzione offre infatti una nuova lente nanoscopica per poter vedere strutture che fino ad oggi erano difficilmente caratterizzabili. Grazie all’introduzione di queste nuove tecniche, è dunque possibile osservare il comportamento di singole proteine nel loro contesto fisiologico con una risoluzione maggiore rispetto ad altre microscopie.
“La possibilità di vedere singole proteine, che è stato l’oggetto specifico della nostra ricerca ¬ - ha concluso Marco Scarselli - apre ad una nuova era della ricerca biomedica e farmacologica in cui sarà possibile ottenere informazioni scientifiche più dettagliate e approfondite sul meccanismo di numerosi processi fisiologici e patologici con rilevanti conseguenze anche dal punto di vista applicativo”.
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Riferimenti all’articolo scientifico
Titolo articolo
Revealing G-protein-coupled receptor oligomerization at the single-molecule level through a nanoscopic lens: methods, dynamics and biological function
Autori e relative affiliazioni
Marco Scarselli (1), Paolo Annibale (2), Peter J. McCormick (3) , Shivakumar Kolachalam (1), Stefano Aringhieri (1), Aleksandra Radenovic (2), Giovanni U. Corsini (1), Roberto Maggio (4)
1) Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia, Università di Pisa
2) Laboratory of Nanoscale Biology, EPFL, Lausanne, Switzerland
3) School of Pharmacy, University of East Anglia, Norwich, United Kingdom (UK)
4) Dipartimento Biotecnologico e delle Scienze Cliniche Applicate, Università dell’ Aquila
Rivista
FEBS Journal (The Journal of the Federation of European Biochemical Societies)
Visualizzare l’invisibile mondo delle molecole
Visualizzare elementi biologici come le sinapsi interneuronali, gli organelli cellulari, i cromosomi e i virus in modo da comprendere meglio il loro funzionamento. Tutto ciò oggi è possibile grazie a nuove tecniche microscopiche in fluorescenza ad alta risoluzione, una metodica su cui ha fatto il punto una ricerca internazionale di cui è partner il dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa. I risultati dello studio, durato tre anni e svolto in collaborazione con l’École polytechnique fédérale de Lausanne, l’University of East Anglia e l’Università dell’Aquila, sono stati appena pubblicati su “The Journal of the Federation of European Biochemical Societies”.
“Oggi, possiamo contare il numero di molecole presenti in varie strutture biologiche, determinare l’interazione tra proteine e visualizzare il meccanismo di attivazione recettoriale indotta da farmaci o sostanze naturali”, ha spiegato Marco Scarselli (foto) che coordina il team dell’Ateneo pisano composto da Stefano Aringhieri, Shivakumar Kolachalam e Giovanni U. Corsini.
Nel campo delle scienze biologiche, l’utilizzo della microscopia ad alta risoluzione offre infatti una nuova lente nanoscopica per poter vedere strutture che fino ad oggi erano difficilmente caratterizzabili. Grazie all’introduzione di queste nuove tecniche, è dunque possibile osservare il comportamento di singole proteine nel loro contesto fisiologico con una risoluzione maggiore rispetto ad altre microscopie.
“La possibilità di vedere singole proteine, che è stato l’oggetto specifico della nostra ricerca - ha concluso Marco Scarselli - apre ad una nuova era della ricerca biomedica e farmacologica in cui sarà possibile ottenere informazioni scientifiche più dettagliate e approfondite sul meccanismo di numerosi processi fisiologici e patologici con rilevanti conseguenze anche dal punto di vista applicativo”.
Ne hanno parlato:
QN-Quotidiano Nazionale
ANSA-Scienza&Tecnica
Il know-how tecnologico dell’Università di Pisa per il people mover di Pisa e Miami
C’è anche un po’ di Università di Pisa nel futuro people mover di Pisa così come in quello già realizzato a Miami, negli Stati Uniti. Il dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Ateneo ha infatti collaborato con LEITNER, azienda leader nel settore, per realizzare l’innovativo carrello “bogie” su cui poggeranno le cabine.
“Il gruppo da me coordinato – ha spiegato il professore Francesco Frendo dell’Università di Pisa – del quale fa parte anche l'ingegnere Francesco Bucchi, assegnista di ricerca presso il nostro Ateneo, ha lavorato in stretta collaborazione con LEITNER alla simulazione della dinamica del mezzo di trasporto a fune, finalizzata al progetto del carrello e all’ottimizzazione del sistema di sospensioni, con particolare attenzione al comfort dei passeggeri”.
Nell'ambito del contratto di ricerca stipulato con l'azienda, il team di ingegneri dell’Università di Pisa ha anche contribuito al progetto di un analogo carrello ‘‘bogie’’ di un people mover recentemente installato presso l'aeroporto di Miami.
La presentazione del carrello “bogie” destinato al people mover pisano si è svolta a novembre scorso a Vipiteno, in provincia di Bolzano, nella sede della LEITNER alla presenza, fra gli altri, di alcuni componenti della commissione di sicurezza del Ministero dei Trasporti, di Alessandro Fiorindi, responsabile del progetto e amministratore unico della società Pisamo committente dell’opera, e di Angela Nobile, responsabile del progetto su nomina dell’amministrazione comunale.
Fare sport per migliorare la vista... si può!
Si sa che l’esercizio fisico migliora lo stato di salute muscolare e cardiovascolare, le capacità cognitive e la resistenza all’invecchiamento. Non era noto, però, se e in quale misura svolgere attività motorie potesse anche agire sui processi di plasticità cerebrale, cioè la capacità dei circuiti del cervello di adattarsi in risposta agli stimoli ambientali.
Questo tema è stato affrontato dai ricercatori Claudia Lunghi, del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia dell’Università di Pisa, e Alessandro Sale, dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) di Pisa, focalizzando l’attenzione sul sistema visivo. La ricerca, pubblicata su Current Biology, riguarda in particolare un fenomeno chiamato rivalità binoculare. “Quando i nostri occhi vedono due immagini diverse, il cervello va in confusione e, per uscire dall’empasse, privilegia ora l’uno ora l’altro dei due segnali – spiega Sale – Quindi se vengono inviati stimoli contrastanti (per esempio linee orientate in modo diverso) ai due occhi di un soggetto, egli riporterà una continua alternanza delle due immagini, che verranno percepite per una durata temporale che è funzione della forza dell’occhio a cui lo stimolo è presentato”.
La durata della percezione del segnale è un indice della plasticità della corteccia visiva adulta, come osservato da un precedente studio di Lunghi: “Abbiamo dimostrato che se si chiude per circa due ore l’occhio dominante, lo stimolo proiettato all’occhio che era stato chiuso verrà percepito per tempi più lunghi. In pratica chiudere un occhio non indebolisce la forza attribuita ai segnali che gli vengono inviati, anzi la rafforza”.
Tali conoscenze sono alla base della nuova ricerca, ovvero lo studio della plasticità del cervello quando si svolge un’attività motoria. “Abbiamo testato gli effetti di due ore di bendaggio di un occhio su 20 soggetti adulti in due diverse condizioni sperimentali: in una i soggetti stavano seduti durante le due ore di bendaggio e nell’altra pedalavano su una cyclette – prosegue Lunghi – I risultati sono sorprendenti: quando i soggetti svolgevano attività motoria gli effetti del bendaggio monoculare sono apparsi molto più marcati, con un notevole potenziamento della risposta agli stimoli presentati all’occhio che era stato chiuso rispetto all’analoga risposta osservata quando erano stati a riposo”.
Questi risultati hanno importanti applicazioni in campo clinico per una patologia molto diffusa e incurabile, l’occhio pigro o ambliopia, per cui l'esercizio fisico volontario si prospetta ora come una via promettente per stimolare la plasticità visiva in maniera fisiologica e non invasiva.
Tuttavia i meccanismi alla base del fenomeno sono in fase di studio. “Una delle possibili spiegazioni parte dall’osservare che la chiusura temporanea di un occhio riduce nella corteccia visiva i livelli di un neurotrasmettitore inibitorio per il sistema nervoso (GABA) – affermano Sale e Lunghi – Ipotizziamo quindi che attraverso l’attività motoria si ottenga un’ulteriore diminuzione di questa molecola, potenziando la plasticità”.
La plasticità del cervello è massima durante lo sviluppo per poi diminuire drasticamente nell’adulto. “Questo studio – concludono i ricercatori – rappresenta la prima dimostrazione degli effetti dell’attività motoria sulla plasticità del sistema visivo e ci porta a considerare l’esercizio fisico non solo come un’abitudine salutare, ma anche come un aiuto per il cervello a mantenersi giovane”.
Laura Boldrini protagonista di un incontro all’Università di Pisa
Giovedì 10 dicembre, alle 15.30, nell'Aula Magna del Polo Carmignani, in piazza dei Cavalieri, la Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, sarà protagonista di un incontro aperto al pubblico e agli studenti. Attraverso brevi riflessioni affidate ai professori Carlo Casarosa, Enza Pellecchia ed Eugenio Ripepe, sarà presentato l’ultimo libro scritto dalla Presidente, “Lo sguardo lontano” (Einaudi). Introdotto dai saluti del rettore Massimo Augello, l’incontro sarà moderato dal giornalista Bruno Manfellotto. L’accesso all’Aula Magna del Polo Carmignani è consentito, per ragioni di protocollo, fino alle ore 15.15.
Un deserto che prende vita: dal Perù nuove conoscenze sugli antichi ecosistemi oceanici
Dalle rocce sedimentarie che compongono il deserto di Ica affiorano fossili di vertebrati marini che svelano i segreti dell’evoluzione degli antichi sistemi oceanici. Succede in Perù, grazie alle campagne di scavi intraprese dal 2006 da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dall’Università di Pisa, che nel corso degli anni sono riuscite a riportare alla luce sull’altopiano di Pisco, lungo la costa meridionale del Paese, uno straordinario numero di fossili, tra cui il Leviatano, parente dell’attuale capodoglio ritrovato ormai alcuni fa. Il cuore di quello che possiamo definire il “laboratorio dell’evoluzione in ambiente marino” è il sito di Cerro Colorado dove, in un’area pari di circa 12 chilometri quadrati (più o meno coincidente con quella della città di Pisa), sono stati censiti 318 fossili di vertebrati marini risalenti a circa 10 milioni di anni fa.
Stavolta a dare informazioni sull’evoluzione della vita negli oceani sono stati i cetoteridi (una famiglia estinta di balene di piccola taglia) e gli zifidi (cetacei ancora oggi rappresentati, ma poco conosciuti per via delle loro abitudini di profondità). Le ultime campagne di scavo hanno gettato nuova luce sulle consuetudini alimentari di queste forme di cetacei 'primitivi': “Nella primavera dello scorso anno, durante lo scavo di uno scheletro quasi completo di cetoteride, ossa e scaglie di sardina sono stati rivenuti in corrispondenza della cassa toracica – racconta Alberto Collareta, dottorando dell’Università di Pisa che con i suoi studi sta cercando di ricostruire la struttura ecologica della fauna fossile della Formazione Pisco – Tali resti sono stati interpretati come il contenuto stomacale fossilizzato della balena. Sulla base di questo ritrovamento si ipotizza che il cetoteride di Cerro Colorado fosse un piscivoro che si alimentava “a boccate”, una strategia trofica che caratterizza tutte le balene che oggi si nutrono di pesci”. Lo studio del contenuto stomacale, un oggetto molto fragile e dalla complessa architettura tridimensionale, è stato possibile grazie all'applicazione di metodologie di imaging per tomografia assiale computerizzata ad alta risoluzione (micro-CT) in collaborazione con i ricercatori dell'U.O. Radiodiagnostica 3 e dell'Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa.
“A settembre 2014 è stato poi il turno dello zifide – aggiunge Collareta – La scoperta di un gran numero di scheletri parziali di sardina associati a uno scheletro di zifide è stato interpretato come evidenza di interazione trofica tra il cetaceo (il predatore) e i pesci (le prede). Questo record fossile supporta l'ipotesi che le abitudini abissali e la dieta a base di molluschi cefalopodi caratterizzino solo gli zifidi “moderni”, mentre l'estinzione delle forme più primitive potrebbe coincidere con la radiazione dei delfini, che ne avrebbero occupato la nicchia ecologica da predatori superficiali”.
Infine, entrambi i ritrovamenti indicano che, come anche oggi accade, le coste del Perù vedessero la presenza di ingenti banche di sardine che attiravano una grande diversità di vertebrati predatori. Questi due studi sono stati pubblicati in due articoli gemelli recentemente pubblicati su “The Science of Nature” e sui “Proceedings B of the Royal Society of London”. “Zifidi e cetoteridi costituiscono componenti importanti delle associazioni fossili a vertebrati marini del Miocene superiore (circa 12-5 milioni di anni fa) e dunque rappresentano tappe fondamentali nell’evoluzione dei cetacei e più in generale nella strutturazione dei moderni ecosistemi marini – conclude Collareta – Tuttavia, prima delle nostre ricerche nel deserto del Perù non avevamo nessuna testimonianza diretta del loro ruolo ecologico”.
“Questi risultati – commenta Giovanni Bianucci, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa, veterano del deserto del Perù e coordinatore di un progetto PRIN e di un National Geographic Grant – sono frutto del costante e meticoloso lavoro di campagna effettuato negli ultimi anni, che ha visto sul terreno un gruppo costituito da paleontologi dei vertebrati, micropaleontologi, geologi e vulcanologi. Tale impegno, che continua tuttora, è possibile grazie a progetti che coinvolgono scienziati delle università di Pisa, Camerino e Milano Bicocca e diverse istituzioni straniere. Grazie a questo genere di finanziamenti, giovani ricercatori italiani - laureandi e dottorandi - hanno avuto la possibilità di affrontare le grandi questioni dell'evoluzione oceanografica e biologica dell'ambiente marino in una delle aree più significative a livello mondiale, confrontandosi sul campo con scienziati provenienti da tutto il mondo. Un’esperienza - conclude Bianucci - che dimostra l'importanza, anche nell'ambito delle geoscienze, di un approccio multidisciplinare e integrato per raggiungere grandi risultati”.
Il know-how tecnologico dell’Ateneo per il people mover di Pisa e Miami
C’è anche un po’ di Università di Pisa nel futuro people mover di Pisa così come in quello già realizzato a Miami, negli Stati Uniti. Il dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Ateneo ha infatti collaborato con LEITNER, azienda leader nel settore, per realizzare l’innovativo carrello “bogie” su cui poggeranno le cabine.
“Il gruppo da me coordinato – ha spiegato il professore Francesco Frendo dell’Università di Pisa – del quale fa parte anche l'ingegnere Francesco Bucchi, assegnista di ricerca presso il nostro Ateneo, ha lavorato in stretta collaborazione con LEITNER alla simulazione della dinamica del mezzo di trasporto a fune, finalizzata al progetto del carrello e all’ottimizzazione del sistema di sospensioni, con particolare attenzione al comfort dei passeggeri”.
Nell'ambito del contratto di ricerca stipulato con l'azienda, il team di ingegneri dell’Università di Pisa ha anche contribuito al progetto di un analogo carrello ‘‘bogie’’ di un people mover recentemente installato presso l'aeroporto di Miami.
La presentazione del carrello “bogie” destinato al people mover pisano si è svolta a novembre scorso a Vipiteno, in provincia di Bolzano, nella sede della LEITNER alla presenza, fra gli altri, di alcuni componenti della commissione di sicurezza del Ministero dei Trasporti, di Alessandro Fiorindi, responsabile del progetto e amministratore unico della società Pisamo committente dell’opera, e di Angela Nobile, responsabile del progetto su nomina dell’amministrazione comunale.
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Foto: fonte LEITNER
Antropologia della cultura materiale
Fabio Dei insegna Antropologia culturale al dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa e si occupa prevalentemente di epistemologia delle scienze sociali e di temi della cultura popolare e di massa nell’Italia contemporanea. Insieme a Pietro Meloni, professore di Antropologia dei media all’Università di Milano Bicocca, ha appena pubblicato il volume “Antropologia della cultura materiale” (Carocci, 2015) che qui presenta con una breve introduzione.
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Nella tradizione dell’antropologia e delle scienze sociali vi sono due modi di studiare la cultura. Uno consiste nella osservazione (per quanto possibile “partecipante”) del comportamento sociale, delle azioni e dei discorsi delle persone, delle istituzioni che le regolano. L’altro è l’analisi degli oggetti nei quali gli aspetti immateriali della cultura (i suoi valori, saperi, codici, strutture) sono incorporati e assumono forma visibile e durevole. Questa è appunto la “cultura materiale”.
Gli studi in questo campo si sono concentrati nel corso del Novecento sugli oggetti unici e autentici caratteristici delle culture “primitive”, esotiche e popolari: ad esempio i prodotti dell’arte e dell’artigianato nativo, gli attrezzi del lavoro contadino tradizionale, e tutte le altre cose costruite manualmente per mezzo di saperi tramandati di generazione in generazione. Oggetti di questo tipo hanno riempito i musei etnografici e hanno spesso affascinato le stesse avanguardie artistiche e scientifiche dell’Occidente (si pensi all’importanza delle maschere africane per Picasso o a quella dei feticci per Freud). Al contrario, l’antropologia ha dedicato scarso interesse agli oggetti che popolano la vita quotidiana nei contesti sociali moderni: cose prodotte in modo industriale e seriale, scambiate come merci e “alienate” rispetto alla competenza tecnica delle persone che le usano. Cose che esprimerebbero più la deculturazione imposta dal consumismo che non una autentica cultura umana.
Questo libro propone una prospettiva diversa. Suggerisce che per capire la nostra cultura, nel senso antropologico del termine, occorra studiare in primo luogo il nostro rapporto con gli oggetti che costituiscono i mondi della vita quotidiana. Ciò significa in primo luogo ripensare il concetto stesso di consumo. I consumatori non sono soltanto soggetti passivi e alienati: piuttosto, usano il flusso delle merci per costruire attivamente le proprie identità sociali, i propri mondi di significato. Apparentemente intercambiabili, le merci attraversano in realtà processi di “singolarizzazione” e “densificazione” quando entrano in rapporto con i soggetti umani. Non è solo il modo in cui sono prodotte che ne determina il significato, ma anche e soprattutto le pratiche al cui interno vengono usate.
Il libro discute le principali ricerche e teorie che supportano questo studio ad ampio raggio della cultura materiale nella società contemporanea. Mostra che gli oggetti hanno una loro “carriera” o ciclo di vita, attraversano diversi “regimi di valore”, costituiscono “dispositivi socio-tecnici”, giocano un proprio ruolo di agenti sociali attivi. È un percorso difficile per l’antropologia culturale, troppo legata alla classica svalutazione del moderno-inautentico a favore del tradizionale-autentico. Ma anche un percorso necessario per una disciplina che aspira a cogliere la grana profonda e sottile della cultura, che si nasconde oggi nel nostro complesso rapporto quotidiano con l’universo delle merci e del consumo di massa.
Fabio Dei
Fare sport per migliorare la vista... si può!
Si sa che l’esercizio fisico migliora lo stato di salute muscolare e cardiovascolare, le capacità cognitive e la resistenza all’invecchiamento. Non era noto, però, se e in quale misura svolgere attività motorie potesse anche agire sui processi di plasticità cerebrale, cioè la capacità dei circuiti del cervello di adattarsi in risposta agli stimoli ambientali. Questo tema è stato affrontato dai ricercatori Claudia Lunghi, del dipartimento di Ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia dell’Università di Pisa, e Alessandro Sale dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) di Pisa, focalizzando l’attenzione sul sistema visivo.
La ricerca, pubblicata su Current Biology, riguarda in particolare un fenomeno chiamato rivalità binoculare. “Quando i nostri occhi vedono due immagini diverse, il cervello va in confusione e, per uscire dall’empasse, privilegia ora l’uno ora l’altro dei due segnali – spiega Sale – Quindi se vengono inviati stimoli contrastanti (per esempio linee orientate in modo diverso) ai due occhi di un soggetto, egli riporterà una continua alternanza delle due immagini, che verranno percepite per una durata temporale che è funzione della forza dell’occhio a cui lo stimolo è presentato”.
La durata della percezione del segnale è un indice della plasticità della corteccia visiva adulta, come osservato da un precedente studio di Lunghi: “Abbiamo dimostrato che se si chiude per circa due ore l’occhio dominante, lo stimolo proiettato all’occhio che era stato chiuso verrà percepito per tempi più lunghi. In pratica chiudere un occhio non indebolisce la forza attribuita ai segnali che gli vengono inviati, anzi la rafforza”.
Tali conoscenze sono alla base della nuova ricerca, ovvero lo studio della plasticità del cervello quando si svolge un’attività motoria. “Abbiamo testato gli effetti di due ore di bendaggio di un occhio su 20 soggetti adulti in due diverse condizioni sperimentali: in una i soggetti stavano seduti durante le due ore di bendaggio e nell’altra pedalavano su una cyclette – prosegue Lunghi – I risultati sono sorprendenti: quando i soggetti svolgevano attività motoria gli effetti del bendaggio monoculare sono apparsi molto più marcati, con un notevole potenziamento della risposta agli stimoli presentati all’occhio che era stato chiuso rispetto all’analoga risposta osservata quando erano stati a riposo”.
Questi risultati hanno importanti applicazioni in campo clinico per una patologia molto diffusa e incurabile, l’occhio pigro o ambliopia, per cui l'esercizio fisico volontario si prospetta ora come una via promettente per stimolare la plasticità visiva in maniera fisiologica e non invasiva. Tuttavia i meccanismi alla base del fenomeno sono in fase di studio. “Una delle possibili spiegazioni parte dall’osservare che la chiusura temporanea di un occhio riduce nella corteccia visiva i livelli di un neurotrasmettitore inibitorio per il sistema nervoso (GABA) – affermano Sale e Lunghi – Ipotizziamo quindi che attraverso l’attività motoria si ottenga un’ulteriore diminuzione di questa molecola, potenziando la plasticità”.
La plasticità del cervello è massima durante lo sviluppo per poi diminuire drasticamente nell’adulto. “Questo studio – concludono i ricercatori – rappresenta la prima dimostrazione degli effetti dell’attività motoria sulla plasticità del sistema visivo e ci porta a considerare l’esercizio fisico non solo come un’abitudine salutare, ma anche come un aiuto per il cervello a mantenersi giovane”.
Ne hanno parlato:
Repubblica.it
Ansa.it
LaStampa.it
Focus.it
PisaToday.it
Controcampus.it
Panorama.it
LeScienze.it
LiberoQuotidiano.it
ADNkronos.it
insalutenews.it
ilTempo.it
«Per Palmira», una giornata in memoria di Khaled Al-Asaad
L’Università di Pisa dedica una giornata di studi alla memoria di Khaled Al-Asaad, l'archeologo siriano, a lungo direttore del Museo di Palmira, torturato e ucciso dalle truppe dello Stato Islamico il 18 agosto 2015. L’appuntamento, dal titolo «Per Palmira», è organizzato nell'ambito del seminario di ricerca The Learning Roads, e si terrà mercoledì 9 dicembre a partire dalle ore 10 alla Gipsoteca di Arte antica, in piazza San Paolo all’Orto. Dopo i saluti istituzionali, interverranno Marilina Betrò egittologa dell’Ateneo pisano, Maria Teresa Grassi dell’Università di Milano, Ettore Janulardo, storico dell’arte dell’Università di Bologna, Stefania Mazzoni dell’Ateneo fiorentino, Maurizio Paoletti dell’Università della Calabria e di quella di Pisa e Cecilia Zecchinelli, giornalista e arabista.