Le piante a foglie rosse sono più resistenti agli stress rispetto a quelle a foglie verdi
Il ‘verde’ delle nostre città? Più è rosso e più è resistente. È questo quanto emerge da uno studio del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista “Frontiers in Plant Science”. Il team dei ricercatori coordinato dalla professoressa Lucia Guidi, direttore del Centro Nutrafood, ha infatti scoperto che le piante a foglie rosse si difendono meglio dagli stress ambientali, come siccità, stress luminoso e salinità, rispetto a quelle a foglie verdi.
“Questo maggiore resilienza – spiega Marco Landi ricercatore dell’Università di Pisa – è dovuta alla presenza di antociani, dei pigmenti da cui deriva proprio il rosso delle foglie, che fanno da ‘filtro’ nei confronti dei raggi solari esercitando un’azione fotoprotettiva, soprattutto nei momenti in cui le foglie sono più vulnerabili, cioè quando sono più giovani o senescenti”.
In particolare, l’analisi dei ricercatori si è concentrata su due genotipi di Prunus, a foglie verdi e rosse, dimostrando che queste ultime sopravvivono meglio in condizioni avverse proprio grazie ad una maggiore resistenza delle foglie in tutte le fasi di sviluppo. E così, come conseguenza della presenza di antociani, nel periodo autunnale le piante rosse mantengono le foglie un mese in più circa rispetto quelle verdi.
“Oltre agli aspetti più prettamente scientifici legati alla biosintesi degli antociani – conclude Landi - la ricerca fornisce delle indicazioni utili per selezionare le specie arboree più adatte per l’arredo urbano delle nostre città, un settore nel quale il nostro Dipartimento ha al suo attivo una ventina di anni di attività di ricerca e di didattica, soprattutto nell’ambito della laurea magistrale in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio”.
La ricerca pubblicata su “Frontiers in Plant Science” è stata finanziata grazie ad un Progetti di Ricerca di Ateneo (PRA) e i risultati sono stati presentati nel corso del convegno “Il privilegio di essere rossi in condizioni di stress” che si è svolto all’Università di Pisa nel giugno scorso. Gli autori dello studio, insieme a Lucia Guidi e Marco Landi, sono Rossano Massai, Damiano Remorini, Fernando Malorgio, Paolo Vernieri, Tommaso Giordani, Cristina Nali, Elisa Pellegrini, Giovanni Rallo, ed Ermes Lo Piccolo per l’Università di Pisa e Giovanni Agati e Cristiana Giordano del CNR di Firenze.
Le piante a foglie rosse sono più resistenti agli stress rispetto a quelle a foglie verdi
Il ‘verde’ delle nostre città? Più è rosso e più è resistente. È questo quanto emerge da uno studio del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista “Frontiers in Plant Science”. Il team dei ricercatori coordinato dalla professoressa Lucia Guidi, direttore del Centro Nutrafood, ha infatti scoperto che le piante a foglie rosse si difendono meglio dagli stress ambientali, come siccità, stress luminoso e salinità, rispetto a quelle a foglie verdi.
Particolare di un nuovo germoglio ancora in attiva crescita durante l'inizio dell'autunno, presente solo in piante a foglia rossa
“Questo maggiore resilienza – spiega Marco Landi ricercatore dell’Università di Pisa – è dovuta alla presenza di antociani, dei pigmenti da cui deriva proprio il rosso delle foglie, che fanno da ‘filtro’ nei confronti dei raggi solari esercitando un’azione fotoprotettiva, soprattutto nei momenti in cui le foglie sono più vulnerabili, cioè quando sono più giovani o senescenti”.
In particolare, l’analisi dei ricercatori si è concentrata su due genotipi di Prunus, a foglie verdi e rosse, dimostrando che queste ultime sopravvivono meglio in condizioni avverse proprio grazie ad una maggiore resistenza delle foglie in tutte le fasi di sviluppo. E così, come conseguenza della presenza di antociani, nel periodo autunnale le piante rosse mantengono le foglie un mese in più circa rispetto quelle verdi.
“Oltre agli aspetti più prettamente scientifici legati alla biosintesi degli antociani – conclude Landi - la ricerca fornisce delle indicazioni utili per selezionare le specie arboree più adatte per l’arredo urbano delle nostre città, un settore nel quale il nostro Dipartimento ha al suo attivo una ventina di anni di attività di ricerca e di didattica, soprattutto nell’ambito della laurea magistrale in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio”.
La ricerca pubblicata su “Frontiers in Plant Science” è stata finanziata grazie ad un Progetti di Ricerca di Ateneo (PRA) e i risultati sono stati presentati nel corso del convegno “Il privilegio di essere rossi in condizioni di stress” che si è svolto all’Università di Pisa nel giugno scorso. Gli autori dello studio, insieme a Lucia Guidi e Marco Landi, sono Giacomo Lorenzini, Rossano Massai, Damiano Remorini, Fernando Malorgio, Paolo Vernieri, Tommaso Giordani, Cristina Nali, Elisa Pellegrini, Giovanni Rallo, ed Ermes Lo Piccolo per l’Università di Pisa e Giovanni Agati e Cristiana Giordano del CNR di Firenze.
In ricordo di Andrea Camilleri
È morto questa mattina Andrea Camilleri, lo scrittore, drammaturgo e regista siciliano che era ricoverato dal 17 giugno in terapia intensiva dopo essere stato colpito da infarto. Il 26 maggio del 2005 l'Università di Pisa gli aveva conferito la laurea specialistica honoris causa in "Sistemi e progetti di comunicazione". Andrea Camilleri è stato più volte ospite dell'Ateneo: già nel 2004, con un incontro tenutosi il 19 novembre nell'Aula Magna della Sapienza e organizzato dalla facoltà di Lettere e Filosofia, era venuto a presentare la sua ultima opera edita da Mondadori, i "Romanzi storici e civili".
Il 6 giugno 2009 Camilleri era poi tornato a Pisa protagonista di un grande evento del Giugno pisano, organizzato per le celebrazioni dell'Anno galileiano da Unversità di Pisa, Comune di Pisa e Fondazione Teatro di Pisa: Camilleri aveva condotto una "Intervista impossibile a Galileo Galilei" interpretato dall'attore Roberto Scarpa. La serata era stata aperta da un “Elogio del Cannocchiale” tenuto dal professor Alfonso Maurizio Iacono, allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Sul sito Unipi sono disponibili i testi della Lectio Magistralis che Andrea Camilleri tenne il 26 maggio 2005, dal titolo "Le fabbriche del credere”, della Laudatio del professor Maurizio Alfonso Iacono, dal titolo "Il corso delle cose è sinuoso", e del discorso dell'allora rettore Marco Pasquali. È inoltre a disposizione il video della cerimonia di conferimento della laurea HC.
Ci ha lasciato Claudio Naranjo, uno dei maestri dello studio della psiche
Alcuni giorni fa è scomparso Claudio Naranjo, psichiatra, psicoterapeuta e antropologo cileno più volte ospite dell’Università di Pisa dove ha tenuto seminari per gli studenti di Psicologia. Qui di seguito pubblichiamo un ricordo di Naranjo a firma del professor Angelo Gemignani.
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Claudio Naranjo, un “cercatore di Verità”, uno dei maestri dello studio della psiche, è morto a Berkeley, in California, a 86 anni. A partire dalla giovane età, Naranjo ha esplorato le profondità dell’animo umano attraverso la meditazione, l’uso di sostanze psicotrope, e della Gestalt fino arrivare, tra le altre cose, alla creazione dell’enneagramma, un noto modello comprensivo della personalità umana. Esplorando moltissimi campi del sapere, e fondendo l’amore per la conoscenza con il lavoro per la trasformazione della persona, Claudio Naranjo ha posto la liberazione dell’uomo al centro di ogni percorso terapeutico e spirituale, trasformando ed arricchendo uno degli approcci più significativi tra le psicoterapie cosiddette “umanistiche”, la Gestalt del maestro Fritz Perls, nella nuova “Gestalt Viva”. La sua opera terapeutica si è principalmente sviluppata nel programma SAT (“Seekers After Truth”), un programma di formazione olistica psico-spirituale per lo sviluppo personale e professionale, un percorso di crescita e di autoconoscenza che ha raggiunto oggi, dopo oltre quaranta anni di sperimentazione in America Latina e in Europa, una vastissima capacità trasformativa e terapeutica.
La spiritualità, la psicoterapia e l’educazione costituiscono per Naranjo tre aspetti di un medesimo tema, quello dello sviluppo umano. In particolare, riferendosi all’educazione, Naranjo ha precisato che prima di tutto essa deve essere un’“educazione del cuore”, una vera e propria rivoluzione radicale dell’atteggiamento umano e della società moderna: il male e la sofferenza infatti non sarebbero insite nell’essere umano, ma sono piuttosto il prodotto della repressione che la civiltà ha operato sugli istinti naturali e sulla spontaneità.
In questo contesto, l’Università di Pisa ha incontrato il Maestro cileno in tre eventi, nell’ambito dei Leading Themes in Psychology, organizzati dalla psicologia accademica pisana per gli studenti afferenti ai corsi di studio triennale e magistrale in Psicologia clinica e della salute. Nel 2016, l’evento “Incontro con Claudio Naranjo” svolto presso il Palazzo dei Congressi di Pisa, ha costituito il primo passo per la definizione della terapia della Gestalt come “antidoto alla sofferenza universale”, ripercorrendo con testimonianze dirette i rapporti con il suo fondatore Fritz Perls, fino ad arrivare ad auspicare a un cambiamento radicale del pensiero educativo e degli educatori stessi nei confronti dei giovani. Nel 2017, Claudio Naranjo ha presentato una lezione sulla “Dimensione della coscienza: una teoria unificata della meditazione e dell’esperienza psichedelica”. Nel suo intervento, oltre a esporre le varie dimensioni della coscienza, ha guidato meditazioni di gruppo al fine di far provare in prima persona quanto appena descritto. Infine, nel 2018, con il titolo dell’evento voluto dallo stesso Naranjo, “Il distacco dal mondo come chiave per la porta del cielo”, egli già preludeva a una approfondita analisi della morte, interpretando il concetto del distacco anche attraverso la chiave di lettura delle filosofie orientali.
Questi eventi, che hanno riscosso un enorme successo tra i partecipanti, hanno evidenziato un interesse crescente da parte della comunità scientifica e terapeutica verso tematiche che fino a pochi anni fa erano considerate di confine, se non pseudoscientifiche, tra cui lo studio degli stati non ordinari di coscienza e delle loro applicazioni terapeutiche, e che prelude ad un rinascimento futuro della ricerca in questi ambiti, a cui il Maestro Naranjo ha, senza ombra di dubbio, significativamente contribuito.
Angelo Gemignani
Incarico presso il Sistema Museale di Ateneo per la realizzazione di prodotti audiovisivi e multimediali per la promozione delle attività dei musei universitari e dell’attività dell’Erbario
Conferenza sulla “mente criminale”
Com’è fatto il cervello di chi uccide? E quali sono le caratteristiche peculiari di una mente criminale? Queste domande saranno al centro di una conferenza del professore Kent Kiehl dell’Università del New Mexico che si svolgerà giovedì 18 luglio alle ore 15 nell’aula Vitali della Scuola Medica dell’Università di Pisa (Via Roma, 55). L’incontro, gratuito e aperto al pubblico, è organizzato in collaborazione con il Corso di Laurea in Psicologia Clinica e si intitola "Mente Criminale: una prospettiva neurobiologica e psicologica”.
Kent Kiehl è un esperto di fama mondiale per lo studio dei criminali psicopatici, autore del best-seller “The psychopathic whisperer”, tradotto in italiano con il titolo “L’uomo che sussurra agli psicopatici”, nel quale racconta le storie e i risultati di oltre vent’anni di osservazione e studio di autori dei crimini più efferati, molti dei quali assunti agli onori delle cronache di tutto il mondo. Lo scienziato collabora da alcuni anni con il gruppo di ricerca della professoressa Silvia Pellegrini dell’Università di Pisa sulle basi neurobiologiche e i fattori genetici che modulano il comportamento sociale e antisociale.
Dalla Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus 90.000 euro per 60 borse a studenti Unipi
Sono stati consegnati negli scorsi giorni i contributi di studio che la Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus ha stanziato a favore degli studenti dell'Università di Pisa, iscritti a corsi di laurea e a corsi di laurea magistrale, che si trovino in condizioni di svantaggio fisico, psichico, sociale o familiare o in condizioni economiche disagiate. Alla cerimonia, che si è svolta nell’Aula Fratelli Pontecorvo del Polo Fibonacci, erano presenti il rettore Paolo Mancarella, la professoressa Antonella Del Corso in qualità di prorettrice agli Studenti e il dottor Michele Sala, consigliere di amministrazione della Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus.
L'iniziativa ripropone le altre analoghe che sono già state realizzate in collaborazione con l'Ateneo pisano per gli anni accademici 2011/'12 e 2015/'16.
Nel ringraziare la Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus per la sensibilità e l'impegno dimostrati, il rettore Paolo Mancarella ha sottolineato che “la finalità del contributo rivolto alle fasce più deboli e disagiate della popolazione studentesca è benemerita e ci ricorda che anche in tempi in cui rischiano di prevalere sentimenti di chiusura e di egoismo è bene aprirsi alla generosità che possa dare a tutti pari opportunità per emergere. Per questo siamo molto grati alla Fondazione e mi preme sottolineare che l’inclusione del nostro Ateneo tra i destinatari di questa azione è un riconoscimento implicito di una qualità che siamo contenti di esprimere e facciamo di tutto per mantenere e migliorare.”
Tra le finalità della Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus c'è l'intervento a favore dell'istruzione, dell'arte e della cultura, con particolare riguardo a situazioni di difficoltà e disagio. Per questo la Fondazione ha sviluppato da diversi anni collaborazioni con più di quaranta atenei, elargendo oltre 2200 contributi di studio a favore di studenti in condizioni di svantaggio. "Ci rende particolarmente orgogliosi questo il messaggio con cui il dottor Michele Sala ha terminato il suo intervento - avere la possibilità di accompagnare al successo formativo studenti in difficoltà. Questa iniziativa non vuol essere solo una forte testimonianza di attenzione, di vicinanza e di sensibilità sociale, ma rappresenta un vero e proprio atto di giustizia sostanziale che da un lato favorisce il diritto allo studio a giovani in condizioni economiche e familiari svantaggiate e dall’altro realizza un vero e proprio investimento a favore dell’intera società”.
Dalla Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus 90.000 euro per 60 borse a studenti Unipi
Sono stati consegnati negli scorsi giorni i contributi di studio che la Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus ha stanziato a favore degli studenti dell'Università di Pisa, iscritti a corsi di laurea e a corsi di laurea magistrale, che si trovino in condizioni di svantaggio fisico, psichico, sociale o familiare o in condizioni economiche disagiate. Alla cerimonia, che si è svolta nell’Aula Fratelli Pontecorvo del Polo Fibonacci, erano presenti il rettore Paolo Mancarella, la professoressa Antonella Del Corso in qualità di prorettrice agli Studenti e il dottor Michele Sala, consigliere di amministrazione della Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus.
L'iniziativa ripropone le altre analoghe che sono già state realizzate in collaborazione con l'Ateneo pisano per gli anni accademici 2011/'12 e 2015/'16.
Nel ringraziare la Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus per la sensibilità e l'impegno dimostrati, il rettore Paolo Mancarella ha sottolineato che “la finalità del contributo rivolto alle fasce più deboli e disagiate della popolazione studentesca è benemerita e ci ricorda che anche in tempi in cui rischiano di prevalere sentimenti di chiusura e di egoismo è bene aprirsi alla generosità che possa dare a tutti pari opportunità per emergere. Per questo siamo molto grati alla Fondazione e mi preme sottolineare che l’inclusione del nostro Ateneo tra i destinatari di questa azione è un riconoscimento implicito di una qualità che siamo contenti di esprimere e facciamo di tutto per mantenere e migliorare.”
Tra le finalità della Fondazione Intesa Sanpaolo Onlus c'è l'intervento a favore dell'istruzione, dell'arte e della cultura, con particolare riguardo a situazioni di difficoltà e disagio. Per questo la Fondazione ha sviluppato da diversi anni collaborazioni con più di quaranta atenei, elargendo oltre 2200 contributi di studio a favore di studenti in condizioni di svantaggio. "Ci rende particolarmente orgogliosi - questo il messaggio con cui il dottor Michele Sala ha terminato il suo intervento - avere la possibilità di accompagnare al successo formativo studenti in difficoltà. Questa iniziativa non vuol essere solo una forte testimonianza di attenzione, di vicinanza e di sensibilità sociale, ma rappresenta un vero e proprio atto di giustizia sostanziale che da un lato favorisce il diritto allo studio a giovani in condizioni economiche e familiari svantaggiate e dall’altro realizza un vero e proprio investimento a favore dell’intera società”.
In ricordo di Andrea Camilleri
È morto questa mattina Andrea Camilleri, lo scrittore, drammaturgo e regista siciliano che era ricoverato dal 17 giugno in terapia intensiva dopo essere stato colpito da infarto. Il 26 maggio del 2005 l'Università di Pisa gli aveva conferito la laurea specialistica honoris causa in "Sistemi e progetti di comunicazione". Andrea Camilleri è stato più volte ospite dell'Ateneo: già nel 2004, con un incontro tenutosi il 19 novembre nell'Aula Magna della Sapienza e organizzato dalla facoltà di Lettere e Filosofia, era venuto a presentare la sua ultima opera edita da Mondadori, i "Romanzi storici e civili".
Il 6 giugno 2009 Camilleri era poi tornato a Pisa protagonista di un grande evento del Giugno pisano, organizzato per le celebrazioni dell'Anno galileiano da Unversità di Pisa, Comune di Pisa e Fondazione Teatro di Pisa: Camilleri aveva condotto una "Intervista impossibile a Galileo Galilei" interpretato dall'attore Roberto Scarpa. La serata era stata aperta da un “Elogio del Cannocchiale” tenuto dal professor Alfonso Maurizio Iacono, allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Nelle settimane di malattia, Andrea Camilleri è stato ricordato proprio dal professor Alfonso Maurizio Iacono, amico e conterraneo dello scrittore, oltre che preside della Facoltà di Lettere e Filosofia che gli conferì la laurea honoris causa, con queste parole: "Di Andrea Camilleri amo tanto la trilogia delle metamorfosi, anche se, come dice il mio amico Giovanni Taglalavoro, il Re di Girgenti è la sua opera più grandiosa. Un'epopea dove c'è tutto Andrea. Ma amo anche Montalbano. All'inzio aveva più o meno la nostra età e i nostri stessi problemi esistenziali. Poi l'ha fatto ringiovanire. La sua Marinella è quella della mia infanzia. La vedo, la riconosco. Camilleri ha la narrazione nel sangue. Tutte le volte che l'ho incontrato mi ha riempito di storie, bellissime, con quel modo di parlare che sentivo come un'aria di famiglia. Ebbe dalla mia Facoltà, me preside, la laurea honoris causa. Ne feci l'elogio, come accademicamente si usa fare e lui la lectio magistralis. Fu una bellissima giornata. E poi, da me presentato, venne a fare l'intervista impossibile a Galileo. E poi insieme al nostro comune amico Roberto Scarpa. A cose fatte, teatro strapieno, andammo a cena. E lì ancora storie. Mi sembrava di stare in un bar all'aperto a Porto Empedocle e per la verità una volta vi stetti. Una volta dopo una lezione alla Scuola Normale, circondato da politici e sottosegretari di vario tipo, si mise ostentatamente e ironicamente a parlare in siciliano, anzi in agrigentino, con me, creando un piccolo, sottile, imbarazzato sconcerto in persone troppo abituate a essere ascoltate".
L'Università di Pisa vuole ricordare Andrea Camilleri e i forti legami che lo scrittore aveva intessuto negli anni con l'Ateneo, ripubblicando la Lectio Magistralis che tenne il 26 maggio 2005, dal titolo "Le fabbriche del credere".
È inoltre possibile leggere la Laudatio del professor Maurizio Alfonso Iacono "Il corso delle cose è sinuoso", e il discorso dell'allora rettore Marco Pasquali.
Il video della cerimonia
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Le fabbriche del credere
Lectio Magistralis di Andrea Camilleri
Sono perfettamente cosciente che le mie parole non saranno all'altezza della severità e della nobiltà di quest'Aula. E sono altrettanto convinto che quello che dirò è un argomento già ampiamente dibattuto tra gli studiosi della materia. Ma io sono solo un narratore, un romanziere, e credo che il migliore omaggio che io possa fare a questa Istituzione che mi sta indebitamente onorando è quello di non camuffarmi, di non nascondermi dietro una falsa apparenza, ma di mettervi al corrente, con semplicità, a modo mio, di una inquietante considerazione.
Se apro un'Enciclopedia e vado a consultare la voce Comunicazione, trovo scritto ad apertura:
Tutta la fenomenologia dell'ambiente relazionale e sociale può essere vista come comunicazione. In altri termini tutto ciò che arriva agli organi sensoriali di un organismo può essere considerato come un dato informativo che l'organismo riceve ed elabora.
Ma questa concezione così ampia ci può permettere di fare ben pochi progressi nello studio dei processi di comunicazione.
Questo sta a significare, in altri termini, che vivere è sostanzialmente comunicare. Non comunicare può quindi dirsi non vivere?
Parafrasando Shakespeare si potrebbe dire che tutto il mondo (che dico il mondo? L'Universo!) è comunicazione, volontaria o involontaria.
Colto da una leggera vertigine all'idea delle infinite implicazioni di ciò che ho appena letto, metto da parte l'Enciclopedia e prendo tra le mani un più modesto Dizionario. Qui, alla voce relativa, si trovano scritte alcune definizioni più rassicuranti nel senso che in qualche modo restringono il campo.
Comunicazione:"1) il comunicare, ciò che si comunica; 2) Contatto che permette di comunicare; 3) Insieme di strutture, impianti, mezzi che stabiliscono un collegamento; 4) Trasmissioni di informazioni mediante messaggi da un emittente a un ricevente; 5) Comunicazione giudiziaria; 6) Comunione eucaristica".
Ma anche così ristretto, palettato, il campo rimane vastissimo e al tempo stesso alquanto vago e sfuggente (considerate che si va dalla più elementare comunicazione, "ieri è stata una bella giornata", alla comunicazione giudiziaria che oggi come oggi è cosa complessa assai e infine alla comunicazione con Dio, che è cosa di una complessità totale, assoluta).
Prenderò allora in considerazione esclusivamente il punto primo: davvero la comunicazione è solamente ciò che si comunica? Non manca qualcosa di fondamentale in questa prima definizione?
Consentitemi un esempio storico, un po' brutale, per niente accademico, ma significativo. Il XX congresso del PCUS, il primo dopo la morte di Stalin, si aprì a Mosca il 16 febbraio 1956. Erano presenti migliaia di delegati di tutto il mondo. La delegazione italiana, capeggiata da Togliatti, era composta da Scoccimarro, Bufalini e dal napoletano Cacciapuoti. Sottolineo la napolitanità di Cacciapuoti a ragion veduta. All'apertura, dopo gli inni e i saluti di rito, un sovietico che sedeva al tavolo della presidenza si alzò per fare una comunicazione, consistente nell'interminabile elenco dei compagni deceduti dall'ultimo congresso con relativo elogio individuale. Il penultimo fu un giapponese. "E infine"- concluse - "è morto il compagno Josif Vissarionovic Stalin". E si risedette, senza aggiungere parola. Il silenzio che calò improvviso tra le migliaia di delegati sorpresi, interdetti, perplessi venne rotto dall'immediato commento del napoletano Cacciapuoti, un commento che non posso riferire in quest'aula, ma mi limito a dire che è fatto di una sola parola di cinque lettere che comincia con "c" e finisce con "o". Cacciapuoti era stato il primo a capire il senso e il significato di quella comunicazione. Se andiamo a guardar bene, ad allarmarlo non era stata la mancanza di una pur minima parola d'elogio funebre, poteva darsi che la vera e propria commemorazione fosse stata demandata ad altri di più elevato livello (e infatti poco dopo di Stalin parlò Krusciov, nuovo segretario del partito, e si trattò di una damnatio memoriae ), ma era stata l'inversione dell'usuale e rigida gerarchia per cui il nome di Stalin dal primo posto era passato all'ultimo.
Allora la definizione del dizionario che la comunicazione è ciò che si comunica andrebbe integrata così: "cio che si comunica e come lo si comunica".
Ma, attenzione, da tutto questo ne consegue che se il codice nella comunicazione è il fattore indispensabile alla produzione e alla interpretazione del messaggio, nel caso preso in esame mi pare, e forse posso sbagliarmi, che vennero usati tanto un codice quanto un subcodice: il codice era l'elenco puro e semplice dei compagni deceduti, il subcodice consisteva nell'ordine dei nomi che componevano l'elenco. Solo che il subcodice, ai fini della comunicazione, risultava di gran lunga più importante del codice stesso.
In altri termini, quella comunicazione fingendo di obbedire alla regola che "il codice deve essere un sistema convenzionale esplicito per poter permettere il processo di codificazione e di decodificazione", metteva in pratica un codice implicito destinato ad allertare i più ricettivi tra i presenti.
Da quel congresso non sono ancora trascorsi cinquanta anni. Se Hobsbawn ha potuto definire il secolo scorso come il secolo breve è certamente perché la somma degli avvenimenti sociopolitici ed economici, le due grandi guerre, lo sviluppo dell'aviazione, la bomba atomica e l'energia nucleare, il progresso tecnologico hanno fatto assumere soprattutto negli ultimi cinquanta anni al nostro mondo una massa così spaventosamente pesante da farlo apparire persino di breve circonferenza, come avviene con le stelle implose.
E naturalmente, per quanto riguarda lo specifico della mia considerazione, mi basterà richiamare la vostra attenzione sul dominio assoluto rapidamente acquistato dalla televisione prima (e con la quale è nato il fenomeno detto "comunicazione di massa") e da internet negli anni più recenti. Ma proprio questo dominio assoluto rappresenta, almeno ai miei occhi e lietissimo se qualcuno dimostrerà il mio errore, un forte rischio per l'intelligenza dell'uomo stesso. Intelligenza dal latino intelligere, capire.
Nei primi tempi della televisione, tutto ciò che essa ci mostrava era, e voleva essere, un presente continuo fatto vedere nella sua immediata verità . Non sapevamo allora, primitivi spettatori, che anche all'immagine doveva essere applicato il principio d'indeterminazione, quello che, secondo i padri fondatori della quantistica, suona pressappoco così: ogni fenomeno fisico si modifica per il fatto stesso di essere osservato.
E non sto minimamente parlando della manipolazione dell'immagine: sono ancora fermo al fatto che lo sguardo dello spettatore è totalmente guidato e condizionato dallo sguardo di colui che sta riprendendo l'immagine e cioè dal posizionamento della telecamera, dalla disposizione delle luci, dall'ordinamento dell'inquadratura, dal movimento all'interno di essa. Tutte cose che concorrono quindi alla creazione di un'immagine non immediata ma accortamente mediata e certamente finalizzata a suscitare una precisa reazione nello spettatore.
Ricordo che ai primissimi tempi della televisione in Italia mi capitò un fatto che mi turbò e che ancora continua a mettermi in un certo disagio. Allora c'era un solo canale televisivo ed erano da poco entrate in uso apparecchiature che permettevano la registrazione dei programmi.
Ogni domenica mattina veniva celebrata in diretta, dalla cappella degli studi di via Teulada, la santa messa per tutti coloro che non potevano uscire da casa per recarsi in chiesa. Un giovedì pomeriggio, passando davanti alla porta a vetri della cappella, vidi un prete che officiava la messa e due telecamere che lo riprendevano. M'informai con un tecnico.
"Stiamo registrando la messa che manderemo in onda domenica mattina"- mi rispose. La domenica seguente mi misi davanti al televisore: ebbene, quando cominciò il rito, nessun cartello avvertì i fedeli che il miracolo della transustanziazione veniva trasmesso in differita. Sono scarso assai in problemi teologici, ma sento oscuramente che l'episodio appena raccontato entra in qualche modo nel discorso che vado facendo.
Sono bastati pochi decenni perché in tutto il mondo le emittenti televisive si moltiplicassero e alle televisioni di stato si affiancassero un'infinità di televisioni private. Internet inoltre, interagendo con le tv, ha reso il campo della comunicazione e dell'informazione praticamente senza limiti. Questo vertiginoso allargamento della comunicazione è stato salutato da tutti come il segno di una finalmente raggiunta libertà d'informazione. Ma questo tipo di libertà coincide con la possibilità d'approssimarsi a una verità potabilmente limpida e priva di germi? Ho detto e sottolineo: questo tipo di libertà. Mi spiego meglio. Si tratta di una libertà relativa o, nei casi peggiori, solamente apparente. I costi di un'emittente televisiva a medio raggio, una volta che sia uscita vittoriosa dalla guerra delle concessioni delle frequenze, sono di gran lunga superiori a quelle di un quotidiano che ricopra la stessa porzione di territorio. Da qui l'inevitabilità di forti gruppi economici, dotati di precisi interessi, che vengono a proporsi come editori televisivi. Con una differenza sostanziale: che a un quotidiano basta il mantenersi dentro i confini di un certo profilo politico-economico definito, direi quasi pattuito, già fin dal primo numero e che gli ha fatto subito acquistare i "suoi" fedeli lettori per avere anche una buona autonomia di manovra al suo interno; mentre a una rete televisiva, che si rivolge a un pubblico non di lettori ma di spettatori, a un pubblico che deve solo vedere e sentire, che non ha la possibilità di rivedere e risentire, un pubblico munito della tentazione del telecomando e pronto perciò allo zapping, è necessario che tutti, ma proprio tutti, i programmi del palinsesto, anche e soprattutto quelli d'informazione e di commento all'informazione, siano costantemente portatori impliciti delle finalità che i proprietari della rete si propongono.
Questo, in altri termini, viene a significare che ogni rete deve per forza configurarsi come una fabbrica del consenso, consenso sia ai prodotti commerciali pubblicizzati sia alle idee politiche altrettanto pubblicizzate e commercializzate, cercando in tutti i modi d'evitare che gli ascoltatori-compratori-potenziali elettori cambino canale, rischio felicemente inesistente nel nostro paese dato che l'85% delle emittenti pubbliche e private sono sotto il controllo più o meno dichiarato della stessa persona e quindi cambiare canale significa sostanzialmente riascoltare la medesima notizia detta con parole diverse ma con identico intento glorificatorio.
Ma questa che ho chiamato finalità implicita verrebbe ad esercitare la sua capacità d'incidenza, ove si limitasse a un unico codice di comunicazione, solo e sempre su un medesimo gruppo di spettatori, quello che si può definire lo zoccolo duro. Un nucleo comunque limitato e sensibile a una comunicazione più emotiva che logica. Una emittente televisiva privata o pubblica ha però la necessità assoluta d'ampliare il proprio bacino d'ascolto, ne va della sua stessa sopravvivenza per la maggior parte alimentata dall'affluenza degli spot pubblicitari. Da ciò il ricorso non solo a codici diversi, ma a sottocodici molteplici anche nella comunicazione di una stessa notizia. I più evidenti di questi sottocodici sono presenti fin dalla copertina del telegiornale, che è una specie di riassunto delle notizie più importanti che saranno date. La nostra notizia, che chiameremo A, è presente in copertina? Se sì, che posto occupa nell'indice? Se non compare in copertina, a che punto del telegiornale verrà detta? Quanto tempo le verrà dedicato? Qual è la notizia che la precede? Qual è la notizia che la segue? La notizia A viene commentata? Come? Da chi? Si userà per essa il cosiddetto "panino", che significa collocare la notizia A tra due commenti orientati in senso opposto rispetto al contenuto della notizia? E poi: una notizia televisiva può essere semplicemente detta dal giornalista senza l'aiuto dell'immagine, facendone automaticamente una notizia di serie B.
Per ciò che riguarda il parlato, se è vero che, come ha scritto Umberto Eco, « il linguaggio si avvale di rimandi infra e intertestuali e che molto del contenuto trasmesso da un testo è "non detto", presupposto o alluso», questo non fa che portare acqua al mulino di quello che sto dicendo.
Quale tono, timbro di voce usa il giornalista nel dare la notizia A? Che ritmo adopera? Le pause che fa sono per rispetto alla punteggiatura o rimandano, alludendo, a un sottodiscorso B?
Abbiamo avuto esempi memorabili di notizie date interamente per non detto o alluso: ricordo che il giornalista Ugo Zatterin, dovendo dare al pubblico televisivo la notizia dell'approvazione in Parlamento della legge Merlin, quella che aboliva le case di tolleranza, parlò per tre minuti senza mai usare parole che si riferivano a prostitute, prostituzione, case chiuse, parole tutte rigorosamente bandite dalla tv di allora. Adoperò un codice che venne decifrato solo da un quarto degli ascoltatori, il rimanente intuì che qualcosa da quel giorno in poi era vietato in Italia, ma sul momento non seppe cosa, lo seppe quando andò a bussare a una porta sbarrata.
Fin qui non credo di aver detto nulla di nuovo. Ognuno di quelli che mi stanno ascoltando sa benissimo che negli ultimi anni il corso delle cose che prima, per dirla con Merleau-Ponty, era "passabilmente sinuoso", si è fatto totalmente, indecifrabilmente labirintico e questo non solo per la complessa decrittazione di ogni evento in sé, quanto piuttosto per le molteplici e contrastanti e depistanti decrittazioni che la comunicazione dell'informazione si affretta a offrire.
Difficile oggi incontrare un'Arianna su uno schermo televisivo.
E quando la s'incontra, sappiamo ormai che non è prudente fidarsi del filo che ci porge.
Ma non è questo il vero problema. Il problema è, a mio parere, l'ulteriore e pericoloso cambiamento avvenuto negli ultimi due anni circa nella comunicazione di massa. Cambiamento evidente attraverso l'osservazione di come le televisioni mondiali si sono comportate, e continuano a comportarsi, di fronte a un evento che ha coinvolto decine e decine di nazioni.
Di un dittatore, non più feroce di tanti altri che vengono oltretutto foraggiati dai paesi democratici ( e il nostro lo era già stato), si comincia a farne, prima con le parole del Presidente degli Stati Uniti e dei suoi più importanti ministri e quindi attraverso un subitaneo tam tam mediatico, insistente, assordante, coinvolgente, travolgente, ubriacante, con sventagliate continue di notizie e soprattutto immagini volte non alla ragione ma all'emozione, con flash che attengono più alla pubblicità che alla politica, con un martellare d'incontri e dibattiti dove si adopera un linguaggio costantemente sovratono, di questo dittatore se ne fa, dicevo, il nemico pubblico mondiale numero 1, in possesso di spaventose armi di distruzione di massa, capaci di distruggere una città europea in quarantotto ore, come asserisce turbato il primo ministro britannico. Il ministro degli esteri statunitense si reca all'Onu e con grafici, fotografie, fialette, dimostra inequivocabilmente l'esistenza di quelle armi da anni, ricordiamocelo, invano cercate dagli stessi ispettori dell'Onu. Le voci soliste che incitano alla guerra si trasformano ben presto in coro: la guerra preventiva è ineludibile, bisogna attaccare prima di essere attaccati. Anche i paesi che sono per una soluzione politica e non bellica concordano pienamente sulla pericolosità e la cieca ferocia del dittatore. La guerra è stata scatenata, è costata decine di migliaia di morti innocenti, il dittatore è stato preso prigioniero, la guerra è finita ma si è tramutata in un quotidiano massacro, è stato insomma scoperchiato incautamente un vaso di Pandora che sarà arduo richiudere.
Ma le famose armi di distruzione di massa non vengono mai ritrovate, comincia a serpeggiare il sospetto che probabilmente non ci sono mai state. Poi il sospetto diventa certezza. I governi che hanno promosso la guerra sono costretti ad ammetterlo. Il ministro degli esteri statunitense, dimessosi, ora dichiara di avere ingannato il mondo in buona fede, perché ingannato a sua volta dai servizi segreti. Insomma, non era mai esistito il presupposto principale per fare la guerra. Era un falso spudorato, una tragica guerra di Pinocchio.
Ma la conoscenza dell'inganno perpetrato dai capi di stato non scalfisce se non in minima parte, nell'opinione pubblica, il potere di coloro che hanno anche coscientemente ingannato. Anzi, si dà il caso che il primo responsabile, l'americano, venga rieletto a travolgente maggioranza. E anche l'inglese, quando la guerra ormai si consolida come un inutile carnaio, ottiene una storica terza investitura. Tutti e due hanno mentito ai loro popoli, ma i loro popoli gli hanno rinnovato la fiducia.
Perché? Questo è il punto. Si può azzardare un'ipotesi. E cioè che questo è possibile perché i mezzi di comunicazione di massa, da fabbriche di consenso, si sono tramutati, riuscendoci, in convertitori di fede, in fabbriche del credere. Hanno saputo trasformare una guerra evitabile in una lotta suprema tra il Bene e il Male, tutti e due con le iniziali maiuscole.
Forse riuscirò a spiegarmi meglio citando un passo del grande fisico Werner Heisenberg, con l'avvertenza che è estrapolato da un saggio, "Fisica e filosofia", dato alle stampe nel 1958:
«Non possiamo chiudere gli occhi al fatto che è difficile per la gran maggioranza della gente farsi un giudizio ben fondato sulla giustezza di certe dottrine o idee generali. Quindi può essere che la parola "credere" non significhi per la maggioranza di quella gente "percepire la verità di qualche cosa", ma viene piuttosto presa nel senso di "assumere questo a base della vita". Si può facilmente intendere come questo secondo tipo di fede sia molto più fermo e stabile che non il primo e come possa persistere perfino contro un'esperienza diretta che la contraddica, senza restare scossa, perciò, da alcuna sovraggiunta conoscenza.»
Permettetemi un'ultima citazione. Scrisse Stanislaw Jerzy Lec: «Quando la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza non per questo diventa verità.»
Perfettamente d'accordo. Ma se la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza sotto forma di fede?
E questo, in parole povere e conclusive, dimostra, a parer mio, che se non l'eclissi, ma almeno l'offuscamento della ragione non è né un'ipotesi astratta né una remota probabilità.
Andrea Camilleri