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Sono stati resi noti lo scorso 28 giugno, durante il presidio settimanale dei Fridays for Future, i risultati del sondaggio “Riempi la borraccia, svuota il cestino”, promosso dall’Università di Pisa in collaborazione con Legambiente, Sinistra Per… e Greenpeace gruppo locale Pisa. A studenti e personale UNIPI è stato sottoposto un questionario per sodare le loro abitudini in fatto di consumo di acqua in bottiglia.

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“Il questionario – afferma Simone d'Alessandro, docente del dipartimento di Economia e Management e del Centro REMARC - ha messo in luce alcune abitudini all'interno dell'Università di Pisa riguardo al consumo di acqua in bottiglia. In particolare abbiamo notato che la maggior parte di coloro che acquistano acqua confezionata all'Università lo fanno anche a casa propria, un trend che potrebbe essere modificato se una volta installati gli erogatori e abbandonate le bottiglie in plastica questa abitudine fosse imitata anche a casa. Inoltre, è risultato che a un maggiore consumo di bottigliette è associata una ridotta consapevolezza sui temi ambientali, segno che l’Università, come centro di creazione e diffusione della conoscenza, deve farsi parte attiva nel diffondere una maggior consapevolezza della gravità e dell’urgenza del problema e di come cambiamenti nei nostri comportamenti possono contribuire alla riduzione degli impatti”.

Chiarissimi in ogni caso i risultati del sondaggio: la quasi totalità degli oltre 3.300 partecipanti ritiene che le bottigliette di plastica vadano sostituite con erogatori di acqua.

“L'Università crede fino in fondo a questa necessità – prosegue Elisa Giuliani, docente del dipartimento di Economia e Management e direttrice del Centro REMARC –- e sta mettendo pieno impegno in questo progetto. In questo momento stiamo cercando di superare tutti gli ostacoli burocratici per poter procedere il più rapidamente possibile”.

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Un primo passo, come sottolineano Jacopo Bettin e Elena Giusti, di Legambiente Pisa e Ruggero Castaldi, di Sinistra Per..., affinché l'Università promuova una visione di sostenibilità al suo interno e all'esterno, che vada a scardinare le nostre abitudini fondate sull’usa e getta.

“Chi ha risposto alla domanda aperta al questionario lo ha evidenziato bene – dice Elena Giusti - l’entusiasmo per l’iniziativa sugli erogatori c’è, ma si è detto anche che i livelli di spreco generale sono alti, e non solo riguardo la distribuzione dell’acqua. L’Università deve ridurre la quantità di rifiuti che produce, eliminare il monouso nelle mense e nei bar dell'Ateneo, nei distributori automatici; migliorare poi la gestione della differenziata, e modellare una vera e propria campagna di informazione su quali sono i comportamenti più sostenibili e quali gli impatti di una comunità numerosa come quella dell'Università di Pisa".

“L’acqua del rubinetto è sicura e controllata molto più frequentemente di quella in bottiglia – conclude Myriam Bartolucci, Fridays for Future - E la sua potabilità è garantita per legge. Come hanno evidenziato alcuni dei partecipanti al questionario, l’accesso all’acqua è un diritto e quindi l’Università pubblica deve poterlo garantire”. (Fonte Fridays for Future Pisa).

Spesso succede così, i progressi scientifici si ottengono dall’osservazione della natura e dalla comprensione dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. Nello studio condotto da un team di ricercatori provenienti dall’Università di Pisa, l'Ecole Polytechnique Fédérale di Lausanne (EPFL) e l’Università di Twente è stato un fiore a ispirare la definizione di un modello matematico che descrive come si generano forze aerodinamiche stabili capaci di garantire voli a lunga traiettoria. Si tratta del tarassaco, noto anche come “dente di leone”, più in particolare del suo seme, che con il vento si separa dalla pianta di origine e vola disperdendosi a lunghe distanze. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Physical Review Fluids” ed è stato selezionato per una “highlight story” sulla rivista “Physics Magazine”, entrambe edite dall’American Physical Society (APS).

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Il seme del tarassaco può essere trasportato dal vento anche per distanze considerevoli grazie al “pappo”, ovvero un ciuffo di filamenti sottilissimi disposti radialmente a formare un ombrello e che agiscono collettivamente come un paracadute per il seme stesso. La caratteristica più curiosa di questo paracadute naturale è il suo essere principalmente “vuoto”. Infatti, se visto da vicino, il pappo è costituito solo dai filamenti che, essendo in un numero dell’ordine di 100 ed essendo sottilissimi e disposti radialmente, lasciano uno spazio vuoto considerevole tra loro.

simone camarri«Il meccanismo di volo del pappo è stato descritto in un articolo recentemente pubblicato su Nature – spiega il professor Simone Camarri, docente del dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Università di Pisa, tra gli autori del presente studio (nella foto a destra) – Nella nostra ricerca abbiamo proposto un modello matematico che consente di descrivere il comportamento aerodinamico del pappo e, cosa più importante, di studiare la stabilità del suo volo. Il risultato più importante è aver dimostrato che per il diametro e le condizioni di volo tipiche di un pappo, il limite per avere una traiettoria stabile si raggiunge impiegando circa 100 filamenti, e il numero previsto è molto vicino a quanto osservato in natura. Tutto ciò sembra dunque suggerire che, nel suo percorso evolutivo, il pappo abbia raggiunto una condizione ottimale tale da fornire la maggiore resistenza aerodinamica mantenendo contemporaneamente un volo stabile».

Tali principi, spesso cercati in natura, oltre ad avere un interesse fondamentale, costituiscono esempi di come poter realizzare dispositivi artificiali di interesse ingegneristico che siano già vicini a una condizione di ottimo. In questo senso lo studio effettuato sul pappo può dare indicazioni su come poter realizzare dispositivi che generino forze aerodinamiche stabili realizzati tramite strutture per larga parte “vuote”, e dunque con pesi molto ridotti, ovviamente il tutto per dimensioni caratteristiche simili a quelle del seme studiato.

Gli autori dello studio, oltre al professor Simone Camarri, sono il professor François Gallaire (EPFL) e i dottori Francesco Viola, Pier Giuseppe Ledda e Lorenzo Siconolfi, questi ultimi tre laureati a Pisa e oggi afferenti alle università di Losanna e Twente.

Negli ultimi 40 anni l’inverno sulla costa toscana è diventato meno freddo: la temperatura media a gennaio e a febbraio è infatti aumentata di quasi 2 gradi, da circa 8°C a 9.9°C, e se si considera tutta la stagione, da novembre a marzo, l’incremento è stato di 1,6 gradi, da 9.9°C a 11.5°C. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista “Scientia Horticulture” e condotta dal gruppo di lavoro del Prof. Rolando Guerriero, oggi in pensione, composto da Raffaella Viti, Rossano Massai e Calogero Iacona, del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali dell’Università di Pisa e da Susanna Bartolini dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna.
I ricercatori hanno analizzato i dati sulla fioritura di 40 diverse varietà di albicocco coltivate nell’Azienda Sperimentale dell’Ateneo pisano a Venturina (Livorno) per oltre quaranta anni, dal 1973 al 2016. Il periodo di fioritura degli alberi da frutto è infatti strettamente legato alle temperature dei mesi invernali e proprio per questo è uno degli indicatori più utilizzati per gli studi sui cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la ricerca pisana è poi un caso unico: a Venturina si trova una delle più importanti collezioni di germoplasma di albicocco di tutto il bacino del Mediterraneo e così è stato possibile osservare la fioritura di più varietà nelle stesse condizioni sperimentali e per un periodo molto lungo.
I risultati dello studio hanno mostrato un aumento significativo delle temperature medie mensili del periodo autunno-invernale con incremento più marcato a partire dagli anni '90. In particolare, l'escursione termica media giornaliera, cioè la differenza fra la temperatura massima diurna e la minima notturna, è diminuita di quasi 1 grado e mezzo passando da 10.1°C degli anni '70-'80 a 8.8°C del 2013-2016. Un calo drammaticamente significativo c’è stato poi anche per le Unità di Freddo, cioè le ore con una temperatura inferiore ai 7 °C che servono alle piante per il superamento della dormienza delle gemme a fiore, che sono passate da circa 1.300 negli anni '70-'80 a 800 nel 2012-2016.
“Dal punto di vista delle coltivazioni, si tratta di cambiamenti climatici che incidono negativamente sui principali processi biologici stagionali causando spesso produzioni irregolari e, di conseguenza, significative riduzioni della produttività dei frutteti – spiega Rossano Massai  - La maggior parte delle varietà esaminate, appartenenti sia al germoplasma italiano che straniero, opportunamente raggruppate in funzione della diversa epoca di fioritura, ha mostrato negli anni importanti ritardi nell’epoca di fioritura e rilevanti riduzioni dell’intensità della fioritura”.
Un mancato o insufficiente superamento della dormienza influisce infatti negativamente sulla schiusura delle gemme e, di conseguenza, sull’epoca e sulla abbondanza della fioritura. Come risultato negli ultimi 40 anni, l'abbondanza della fioritura (cioè il numero di fiori per cm di ramo ed espressa con un indice da 1, scarsa, a 5, molto abbondante) si è quasi dimezzata rispetto al passato soprattutto per le varietà a fioritura precoce, passando da un valore medio di 3.7 negli anni '70 a poco più di 2 nel periodo 2010-16.
“Il quadro complessivo che emerge dalla ricerca lascia ipotizzare un cambiamento di scenario con uno spostamento più a nord della coltura – conclude Susanna Bartolini –; se in passato nell’area della Maremma Toscana si potevano ottenere produzioni interessanti e economicamente sostenibili anche con varietà a fioritura più tardiva ora appare più opportuno orientarsi verso varietà a basso fabbisogno in freddo e adatte a climi caldi o semiaridi; inoltre il calo complessivo della produttività potrebbe portare ad una forte limitazione all’approvvigionamento locale di frutta e alla necessità di importazione dall’esterno del fabbisogno”. Questa ricerca diviene quindi importante proprio nell’ottica del contenimento delle conseguenze negative dovute all’impatto del cambiamento climatico, garantendo il mantenimento della produttività del frutteto.

Negli ultimi 40 anni l’inverno sulla costa toscana è diventato meno freddo: la temperatura media a gennaio e a febbraio è infatti aumentata di quasi 2 gradi, da circa 8°C a 9.9°C, e se si considera tutta la stagione, da novembre a marzo, l’incremento è stato di 1,6 gradi, da 9.9°C a 11.5°C. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista “Scientia Horticulture” e condotta dal gruppo di lavoro del professore Rolando Guerriero, oggi in pensione, composto da Raffaella Viti, Rossano Massai e Calogero Iacona del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali dell’Università di Pisa e da Susanna Bartolini dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna.

I ricercatori hanno analizzato i dati sulla fioritura di 40 diverse varietà di albicocco coltivate nell’Azienda Sperimentale dell’Ateneo pisano a Venturina (Livorno) per oltre quaranta anni, dal 1973 al 2016. Il periodo di fioritura degli alberi da frutto è infatti strettamente legato alle temperature dei mesi invernali e proprio per questo è uno degli indicatori più utilizzati per gli studi sui cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la ricerca pisana è poi un caso unico: a Venturina si trova una delle più importanti collezioni di germoplasma di albicocco di tutto il bacino del Mediterraneo e così è stato possibile osservare la fioritura di più varietà nelle stesse condizioni sperimentali e per un periodo molto lungo.


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Fioritura dell'albicocco


I risultati dello studio hanno mostrato un aumento significativo delle temperature medie mensili del periodo autunno-invernale con incremento più marcato a partire dagli anni '90. In particolare, l'escursione termica media giornaliera, cioè la differenza fra la temperatura massima diurna e la minima notturna, è diminuita di quasi 1 grado e mezzo passando da 10.1°C degli anni '70-'80 a 8.8°C del 2013-2016. Un calo drammaticamente significativo c’è stato poi anche per le Unità di Freddo, cioè le ore con una temperatura inferiore ai 7 °C che servono alle piante per il superamento della dormienza delle gemme a fiore, che sono passate da circa 1.300 negli anni '70-'80 a 800 nel 2012-2016.


“Dal punto di vista delle coltivazioni, si tratta di cambiamenti climatici che incidono negativamente sui principali processi biologici stagionali causando spesso produzioni irregolari e, di conseguenza, significative riduzioni della produttività dei frutteti – spiega Rossano Massai - La maggior parte delle varietà esaminate, appartenenti sia al germoplasma italiano che straniero, opportunamente raggruppate in funzione della diversa epoca di fioritura, ha mostrato negli anni importanti ritardi nell’epoca di fioritura e rilevanti riduzioni dell’intensità della fioritura”.

Un mancato o insufficiente superamento della dormienza influisce infatti negativamente sulla schiusura delle gemme e, di conseguenza, sull’epoca e sulla abbondanza della fioritura. Come risultato negli ultimi 40 anni, l'abbondanza della fioritura (cioè il numero di fiori per cm di ramo ed espressa con un indice da 1, scarsa, a 5, molto abbondante) si è quasi dimezzata rispetto al passato soprattutto per le varietà a fioritura precoce, passando da un valore medio di 3.7 negli anni '70 a poco più di 2 nel periodo 2010-16.

“Il quadro complessivo che emerge dalla ricerca lascia ipotizzare un cambiamento di scenario con uno spostamento più a nord della coltura – conclude Susanna Bartolini – se in passato nell’area della Maremma Toscana si potevano ottenere produzioni interessanti e economicamente sostenibili anche con varietà a fioritura più tardiva ora appare più opportuno orientarsi verso varietà a basso fabbisogno in freddo e adatte a climi caldi o semiaridi; inoltre il calo complessivo della produttività potrebbe portare ad una forte limitazione all’approvvigionamento locale di frutta e alla necessità di importazione dall’esterno del fabbisogno”. Questa ricerca diviene quindi importante proprio nell’ottica del contenimento delle conseguenze negative dovute all’impatto del cambiamento climatico, garantendo il mantenimento della produttività del frutteto.

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